My Tin Apple: “Non siamo la solita band”

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My Tin Apple: cover

I My Tin Apple creano mondi dark nei quali i personaggi si scontrano con la vita reale. Il loro ultimo singolo, “Giovane Principe”, è una favola moderna in stile Tim Burton.

Come nasce il progetto My Tin Apple?

“I My Tin Apple nascono nel 2012, dalle ceneri di progetti passati. Eravamo coscienti di dover sviluppare qualcosa di più personale ed è venuto fuori questo Tin Rock che la critica ci ha riconosciuto come nostro genere personale. Non ci rifacciamo a una band in particolare, ma preferiamo attingere al mondo fantasy e delle fiabe. Il nostro nome, ad esempio, è l’unione di due elementi: la mela, elemento chiave di alcune fiabe, e “tin” [latta, ndr.], in onore dell’uomo di latta del mago di Oz”.

Mi pare di capire che voi abbiate qualcosa in più da offrire rispetto alle classiche band gothic rock.

“Il nostro è un pacchetto completo che bisogna scoprire e capire appieno, ma non è di nicchia. Le canzoni sono molto melodiche, e il pubblico le recepisce con facilità e le apprezza. Per distinguerci usiamo sonorità che attingono al mondo fiabesco. Se senti l’ultimo singolo, ad esempio, ti accorgerai della presenza di un carillon. C’è poi la questione dell’immagine, che è altrettanto importante, sia nei live che sui social. Abbiamo costumi, trucchi e scenografie. Non siamo la band che prende la chitarra distorta e fa un video per strada. Tutto è curato nei minimi dettagli e trasporta l’ascoltatore nel mondo che creiamo”.

Avete inciso tre album in inglese e uno, ultimo in ordine di tempo, in italiano. Perché questa virata?

“L’italiano è sempre stato nei nostri pensieri. Ascoltiamo tanta musica italiana, anche se non rock. Le band alle quali ci sentiamo più affini sono i Muse e i Placebo, quindi band d’Oltreoceano, il che rende complicato scrivere in italiano più che in inglese. C’è poi da dire che abbiamo sempre fatto live in tutta Italia con i nostri brani in inglese, e questo non ci ha incentivati a tentare una nuova via. Quando è arrivata la pandemia, che ci ha costretti ai box, abbiamo ripreso la penna in mano e così è cominciato questo nuovo percorso, difficile ma molto stimolante. Talmente stimolante che stiamo andando avanti a scrivere in italiano. Siamo stati anche a Sanremo Rock e presto usciranno altri brani”.

Vista la vostra mise internazionale, avete mai pensato di espatriare?

“Ci abbiamo pensato, ma non è una cosa facile. Siamo una band toscana di periferia e la difficoltà principale che troviamo è approcciare alle figure di riferimento che potrebbero aiutarci in tal senso. Per fare un passo del genere serve qualcuno che ti segua, non è che prendi e vai all’estero. Noi siamo alla continua ricerca di figure professionali che possano comprendere e amplificare il nostro potenziale, anche se siamo molto soddisfatti della risposta dei nostri fan. E sono sicuro che, qualora facessimo quel passo verso l’estero, troveremmo più fiducia nella musica originale. Qui in Italia c’è sempre stata una certa resistenza. Ci sono le cover band e queste situazioni che, parliamoci chiaro, presentano i soliti mille pezzi che si ripetono da anni. Non c’è un’attenzione al progetto nuovo”.

Come pensi che venga percepito nel nostro Paese il gothic rock?

“Io credo una cosa: se lasci la band libera di esprimersi, vedi ad esempio i Maneskin, si possono portare tante nuove sfumature e contenuti di qualità. Cosa che ultimamente è stata un attimino tralasciata, preferendo canzoncine dell’estate e tutto quello che viaggia a una velocità assurda. Noi siamo andati nei posti e le persone si sono innamorate dei nostri costumi, della voce di Gianluca, il nostro cantante, delle immagini e dei testi. Ecco, che sia gothic, rock o musica d’altro tipo, secondo me la gente ha bisogno di scoprire le cose e di sentirsele addosso”.

Sembra che qui in Italia le sfumature dark suscitino sempre una certa diffidenza e, in alcuni casi, timore religioso.

“Questa resistenza ci sarà sempre, ma credo che il falso buonismo possa pian piano essere oscurato. Se riesci a vendere bene un progetto, tirando fuori le caratteristiche giuste, la parte ribelle del progetto può diventare quella buona. Se il prodotto è di qualità e trovi il modo di farlo comprendere, le possibilità ci sono. Se gli addetti ai lavori si prendono la responsabilità di investire, alla fine si possono creare perfino nuove mode”.

Mode come quella che avete lanciato voi e che ora state rilanciando attraverso “Giovane Principe”, il nuovo singolo ispirato alla fiaba di Pinocchio. Tra le tante fiabe a diposizione, perché avete scelto proprio quella di Collodi?

“Questo brano doveva fungere da ambasciatore per il nostro Tin Rock in lingua italiana. E quale miglior fiaba se non quella di Pinocchio, che rappresenta al meglio il nostro Paese. Per l’occasione abbiamo deciso di utilizzare una chiave di lettura diversa. Nella nostra canzone, Pinocchio è un ragazzo che si scontra con i problemi dell’età adulta. Problemi che sono poi metafore della vita quotidiana, travestite e colorate per l’occasione”.

Mi chiedo e ti chiedo se questo singolo farà parte di un progetto più ampio che state sviluppando.

“In realtà no, al momento si va avanti per singoli. L’album non è nei nostri pensieri, anche perché ad oggi è una cosa un po’ scaduta. Stiamo lavorando ad appigli vari che consistono in collaborazioni, in un brano creato appositamente per una gara automobilistica e in varie idee che sono in fase di sviluppo. L’ideale sarebbe continuare con una sciarpata di singoli e riuscire a trovare un canale televisivo dove poter piazzare uno di questi nuovi brani”.

Come siete messi con i live? Avete date in programma e, soprattutto, cosa porterete sul palco visivamente?

“Al momento non abbiamo date in programma. Abbiamo anzi dovuto rinunciare ad alcuni appuntamenti per via di impegni, in studio, che prevedevano scadenze. Ci stiamo comunque organizzando e ci stanno anche arrivando segnali in merito. Per quanto riguarda la questione dell’impatto visivo, ci muoviamo a seconda della situazione. Un festival che prevede un cambio palco ristretto, ad esempio, è diverso da un club. I costumi e le scenografie, in ogni caso, fanno parte del nostro modo di essere. Tra l’altro ce li fabbrichiamo da soli, visto che siamo anche piccoli artigiani”.

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