Clan Destino: un “Manifesto” alla musica rock

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Clan Destino: cover

La reunion, il nuovo album, la scomparsa di Luciano Ghezzi e il rock italiano: Gigi Cavalli Cocchi dei Clan Destino, storica band di Luciano Ligabue, ci racconta il ritorno sulle scene della rock band italiana per antonomasia.

Avete dichiarato che “L’Essenza”, album che uscirà a maggio, è “fuori dalle logiche commerciali”. Spiega un po’.

“In questo progetto abbiamo liberato la nostra essenza, senza confrontarci con la realtà discografica del momento. Siamo partiti a suonare in sala prove e a registrare quel che usciva, senza pensare a cosa sarebbe venuto fuori. Abbiamo semplicemente liberato un cavallo selvaggio rimasto chiuso troppo a lungo in un recinto. Ed è venuto fuori quel legame col passato, con quel sound che ci ha caratterizzato nel corso delle produzioni con Luciano Ligabue, ma anche con quel sound dei nostri dischi solisti. In più ci abbiamo messo dentro tutta l’esperienza dei nostri 25 anni di attività e quindi tutto ciò che musicalmente abbiamo assimilato. È stato un lasciarsi andare alla creatività e il risultato finale è un disco davvero molto rappresentativo della band”.

In altre parole vi siete detti: “Al diavolo i consensi e le logiche di mercato, vogliamo fare rock e chi se ne frega del resto”

“Nel momento in cui ci siamo ritrovati abbiamo messo sul piatto le esperienze individuali. Ognuno di noi ne ha fatte di importanti a livello discografico. L’elemento portante di tutta la faccenda è stato scoprire che le vecchie affinità non erano andate disperse. È stato molto facile metterci lì e scrivere. Il singolo estratto dall’album, che si intitola ‘Manifesto’, è la prova pratica di quel che ti dicevo: un brano che ci rappresenta in pieno. C’è quella matrice rock con un suono ruvido, un po’ grunge, che ha caratterizzato i nostri album solisti. Si avvicina al suono delle rock band di oggi, un po’ meno vintage rispetto al nostro classico sound”.

Videoclip di “Manifesto”, singolo dei Clan Destino estratto da “L’Essenza”

A proposito di “Manifesto”, mi chiedevo proprio se l’aveste scelto come singolo perché rappresenta musicalmente l’intero progetto discografico.

“’Manifesto’ rappresenta moltissimo l’album. Ci sono tutti gli ingredienti: la potenza del suono, con le chitarre che dominano ma non schiacciano la voce. Pensa che gli altri brani hanno un sound anche più aggressivo, con le ritmiche serrate e il beat più veloce in alcuni casi. Ci sono anche un paio di ballad, ma gli altri brani hanno tutti le caratteristiche che ti dicevo”.

Il progetto prende corpo in seguito alla scomparsa di Luciano Ghezzi, fondatore e bassista dei Clan Destino. Forse il modo migliore per ricordarlo.

“Il motivo scatenante che ci ha permesso di ritrovarci è stata proprio la sua perdita, due anni fa. Era importante ritrovarci per ricordarlo, ma anche per riprendere qualcosa che era rimasto sospeso. Non c’erano mai le condizioni perché avvenisse quest’incontro e, incredibilmente, questa perdita l’ha reso possibile. Abbiamo intenzione anche di metter su un concerto per ricordarlo. Si terrà a giugno e il ricavato andrà in beneficenza alla sua famiglia, perché Luciano ha tre bambini piccoli”.

Come è stato ritrovarsi in studio di registrazione?

“Ci siamo resi conto che i brani uscivano a ruota libera. Abbiamo scritto tanto materiale che poi è finito nell’album”.

Avete anche dichiarato che Luciano Ligabue vi ha supportati nel corso del progetto.

“Ci ha messo a disposizione il suo studio, concedendoci tutto il tempo che volevamo per mettere insieme i pezzi e rifinirli. Suo figlio Lenny ci ha fatto da fonico. Il suo apporto è stato importante nella realizzazione di questo disco. Era la sua prima esperienza a certi livelli, ma si è divertito come noi. L’abbiamo coinvolto nel lavoro, gli chiedevamo un parere. Per quanto riguarda Luciano, è capitato che anche lui ci desse dei pareri rispetto a un brano. Noi poi ci mettevamo lì a rielaborarlo in modo diverso. È stato poi vicino a suo figlio durante la registrazione delle voci. Da questo punto di vista Luciano è molto bravo a dare consigli. Rispetto invece alla scrittura e all’arrangiamento, ecco, quella è tutta farina del nostro sacco”.

Parliamo un po’ di rock: negli ultimi anni ha preso piede un fenomeno emulativo, quello delle tribute band. Pare ci sia più interesse ad emulare i propri idoli che a creare qualcosa di originale. Secondo te le tribute band rischiano di fiaccare il rock?

“Di sicuro le tribute band hanno preso il posto di gruppi che facevano una propria proposta. Questo è dovuto anche a una disabitudine del pubblico a confrontarsi con qualcosa che non conosce. Si è persa quella attitudine di ascoltare artisti che non si conoscono. E questa cosa accade ancora ora nel resto del mondo. Meno da noi, ma perché nel nostro Paese c’è una tradizione di club più giovane. In America o in Inghilterra, invece, trovi artisti nei pub che portano diverse proposte musicali. A noi questo tessuto manca. Qui a Reggio Emilia, la nostra città, dalla fine degli anni ’60 fino agli anni ’90 c’erano luoghi dove potevi andare ad ascoltare musica. Negli ultimi dieci anni questi ‘luoghi di culto’ hanno perso molto del loro splendore, tanto che oggi sono spariti. Segno dei tempi che corrono. E di certo le tribute band non aiutano”.

Un peccato per il rock nostrano.

“Negli anni ’90 c’erano grandi gruppi e solisti in ambito rock. Mi vengono in mente Paolo Benvegnù, i Marlene Kuntz, gli Afterhours. Diciamo che tutto quel movimento lì è esploso negli anni ’90 e poi alla fine degli anni ’90 è tramontato, almeno in buona parte, perché è venuta a mancare l’attitudine del pubblico di cui ti parlavo prima”.

C’è però chi è riuscito ad aggirare il problema. Se ci spostiamo negli Stati Uniti, band come i Greta Van Fleet hanno ripreso e rielaborato il rock dei Led Zeppelin per creare qualcosa di nuovo, anche se non proprio originale. Potrebbe essere questa la nuova frontiera?

“Se devo guardare all’estero non guardo agli Stati Uniti, con tutto il rispetto. Mi interessa di più la scena nordica, dove ci sono gruppi straordinari e sconosciuti per il mondo, ma che riescono ad avere spazio e possibilità. Band norvegesi, svedesi. Anche la Polonia ha un mondo musicale che è incredibile. Mi viene in mente poi l’Islanda. C’è una band, ad esempio, che si chiama Agent Fresco. Sono giovani musicisti fanno faville in Islanda, mentre il resto del mondo li conosce appena. E queste band non fanno il verso ai gruppi storici, come fanno invece i Greta Van Fleet. Credo non sia quella la strada, ma sono stati comunque bravi a sdoganarsi un po’ dai loro inizi, nei quali erano veramente molto Led Zeppelin. L’ultimo album ha fatto sentire qualcosa di più interessante”.

Guardando in casa nostra mi vengono in mente subito i Maneskin, che sono riusciti a farsi notare soprattutto negli Stat Uniti. Forse, azzardo io, anche per via della loro attitudine così spiccatamente glam. Il pubblico d’Oltreoceano ha riconosciuto qualcosa di familiare, vicino alla loro cultura. Tu cosa pensi del fenomeno Maneskin?

“Ma guarda, io sono felice di questa anomalia. Mi aspettavo che seguisse un’apertura, più per le case discografiche, un po’ come è successo per la trap. Dopo i primi artisti è stato tutto un mettere sotto contratto i giovani autori che facevano trap. I Maneskin stanno facendo un grandissimo lavoro. Stanno dimostrando che si può andare molto in là con il talento, le idee e un’immagine molto forte. Hanno aperto la strada, ma quella stessa strada è rimasta vuota dietro di loro. E questo è un vero peccato. Un risvolto positivo, però, c’è stato. Mi è arrivata notizia che le vendite di chitarre, batterie e bassi sono aumentate. Solo pochi mesi fa, invece, era tutto un fare musica con i computer”.

Maneskin a parte, il rock di casa nostra non sembra avere un grandissimo appeal all’estero. Togliendo qualche band (la PFM su tutte), il rock nostrano non è un prodotto che riusciamo a esportare facilmente. Cosa ci manca?

“In realtà ci sono band che hanno molto seguito all’estero. Mi vengono in mente i Lacuna Coil, ad esempio, ma ti assicuro che ce ne sono molte altre che neanche conosciamo. Ce n’è una della mia città, i Dumbo Gets Mad, che a Reggio Emilia non è riuscita a fare neanche un concerto e che fa tournée negli Stati Uniti. Ci sono tante band nell’ambito metal e qualcosa nel progressive rock che possono dire la loro, ma parliamo comunque di piccoli numeri rispetto a quello che potrebbe essere. Ci sono degli accordi tra le major (non faccio nomi, ma una vale l’altra) secondo i quali la major americana che ha il proprio distaccamento in Italia non è interessata alla musica italiana se questa non è tipicamente italiana. Ed ecco spiegato perché l’estero dà valore alla nostra musica melodica. C’è quindi anche questo ostracismo. Noi italiani, invece, siamo molto aperti all’estero”.

Tornando a noi, immagino non vediate l’ora di portare live la vostra musica. Ci sono già delle date in programma?

“Ci sono un paio di appuntamenti fissati. Quando uscirà il nostro disco a maggio ne sapremo di più e avremo un calendario ufficiale. Al momento abbiamo un evento il 18 di giugno e uno il 26. Io comunque invito tutti a restare sintonizzati sui nostri canali e sul sito internet della band (www.clandestinoband.it), che vedrà aggiornamenti quotidiani”.

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