La musica di YKO è uno straordinario compendio di folk irlandese, country e rock. Omogenei e dal forte impatto emotivo, i brani di questo ragazzo campano vanno oltre le tipiche classificazioni di genere.
YKO: cosa vogliono dire queste tre lettere?
“Era il modo in cui mi chiamava la mia nipotina quand’era piccola. Mi chiamava zio YKO e ho avuto l’idea di trasformare questo soprannome simpatico e romantico in un nome d’arte”.
E io che credevo avesse a che fare con la cultura giapponese.
“Anche se la cultura giapponese a me piace tantissimo, in questo caso le due cose non sono legate. Si tratta solo di un tributo romantico a mia nipote”.
Con la tua vecchia band, i Fall Has Come, hai calcato parecchi palchi europei nel 2015. Avete aperto per band come Evanescence e Disturbed, ma prima? Qual è il percorso che vi ha portati a raggiungere questi risultati?
“Il percorso è stato quello che grosso modo fanno tutte le band, e cioè chiudersi in sala a scrivere. Nel giro di un mese avevamo pronto il primo album e da lì siamo andati in giro per l’Europa: Spagna, Austria ecc.. Alcune agenzia di booking managment ci hanno notato e ci hanno permesso di aprire per queste band famosissime. Siamo stati anche fortunati nel rientrare in alcuni canali abbastanza importanti”.
Mentre la vostra musica prendeva forma, avete mai pensato di prender parte a un qualche talent show?
“Anche se sono consapevole della notorietà che un talent show comporta, appartengo a quella generazione di musicisti che preferisce suonare live nei locali. Sin dall’inizio non ho mai abbracciato la strada del talent, ma sono consapevole della portata mediatica del fenomeno. So che è un metodo immediato ed efficace – vedi i Maneskin – e con un bacino di utenza molto più alto di una promozione su social o piattaforme. Tuttavia non sposa la mia concezione di musica, che è molto più da club e da contatto diretto con il pubblico. Un altro motivo per cui non abbiamo mai pensato al talent è perché, dopo aver aperto per i Disturbed, avevamo in mente un altro album, ma la pandemia ci ha mandato all’aria i piani”.
Dopo 4 anni di soddisfazioni con i Fall Has Come prendi la strada solista. Dal momento che le cose andavano bene, cosa ha dettato questa scelta?
“L’idea del progetto solista era in me da anni. Con i Fall Has Come facevamo una sorta di alternative rock che abbracciava lo stile di alcune band americane come i 30 Seconds To Mars, mentre io ho sempre amato la cultura country, irish e la musica sinfonica e orchestrale. Sentivo di dovermi allontanare da quel genere circoscritto e la pandemia mi ha dato l’occasione di esplorare questo mondo. Come membri della band abbiamo deciso di prendere altre strade e lì mi sono buttato in questo progetto, dove ero libero di mischiare rock, folk, country e musica orchestrale. In quel momento è nato YKO: un ensemble del mio percorso musicale iniziato tanti anni fa”.
Da solista prendi dunque a fondere quelle bellissime sonorità del folk irlandese con il rock e il country. Ma come arriva un ragazzo campano a “pescare” da questo specifico bacino musicale?
“È successo grazie a mio fratello. Lui è un violinista e tantissimi anni fa mi ha iniziato a questa cultura che comprende il “reel” e la “giga” [danze tradizionali irlandesi, ndr]. Già nel 2005 facevamo cover di brani celtici”.
È forte la presenza della musica irlandese soprattutto nel brano In the name, una ballata che ha un enorme impatto emotivo e il cui testo indaga l’esperienza umana su vari livelli. Vorrei che mi aiutassi a entrare nel cuore di questa canzone e dei suoi significati.
“A scrivere In the name è stato Giacomo Bove, un talento della mia terra. Un pomeriggio venne da me e mi disse: ‘Enrico, c’ho ’sto pezzo solo chitarra e voce’. La canzone si è poi evoluta nella versione definitiva. Ed è una canzone che racconta di come le persone alle volte si aggrappino agli ideali o alla fede. Valori che alla fine si fanno da parte, perché l’unico a rimanere sul campo di battaglia è l’uomo in quanto tale. Non esistono bandiere, non esistono dèi. C’è solo l’uomo, una creatura che giace nel fango. Ho deciso di farla uscire nel periodo del conflitto tra Russia e Ucraina proprio perché volevo calamitare l’attenzione su questa condizione e sensibilizzare gli animi. Credo che l’unico esercito di cui abbiamo bisogno sia quello dei violini e delle chitarre. Il tema della canzone è anche la libertà. A governarci non devono essere le ideologie o la fede. Credo che quello dei falsi miti e dei falsi modelli sia uno dei problemi più attuali. Modelli e miti che, a lungo andare, annullano la nostra condizione. E finisce che non siamo più veri”.
Nel videoclip di Rockin’ on the reel compare una Fender Stratocaster con le iniziali SRV. Immagino non sia solo un semplice vezzo, ma il tuo modo di omaggiare la musica blues.
“Amo il blues. È la base di tutta la musica che poi è venuta fuori. Se potessi rinascere, mi piacerebbe venire al mondo nel Tennessee o a Nashville. La chitarra che appare nel video, purtroppo, non è mia. Me l’hanno prestata per l’occasione”.
Il blues però non è protagonista delle tue produzione musicali.
“Delle vecchie no, ma ho già pronto un album che ha come principali protagonisti brani che hanno una matrice gospel e blues. Li ho scritti in pandemia e fanno riferimento a quella corrente culturale lì, nata in America. Quando usciranno e li ascolterai, ti sembrerà davvero di essere lì nel Tennessee”.
Quindi il futuro di YKO prevede questo esaltante album e… poi cosa?
“Lo suonerò dal vivo, in Italia e all’estero. Vorrei muovermi su territorio inglese. Album e tour dovrebbero arrivare entro la fine dell’anno. Toccherò tutte le più importanti città italiane e mi sposterò poi all’estero”.