“Preghiera in gennaio”: imparare dal silenzio

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Preghiera in gennaio

È usanza comune far coincidere il termine “Preghiera” con la religiosità. In origine, questa parola può definirsi un sinonimo di “Supplica”. Pregare significa rivolgere le proprie speranze e i propri desideri a qualcun altro. Qualcuno che ci ascolti. E che magari possieda il potere di esaudire le nostre richieste. Tuttavia, esistono preghiere capaci di rivoltare e stravolgere questa concezione. Una di queste è “Preghiera in gennaio” di Fabrizio De André.

“Preghiera in gennaio”: di che cosa stiamo parlando?

Ci troviamo di fronte a uno dei brani più intensi del cantautore Fabrizio De André. Il singolo fa parte del quasi omonimo disco “Preghiera in gennaio- Si chiamava Gesù”. La sua stesura avvenne nel 1967. Il fattore scatenante: la morte dell’artista Luigi Tenco, il quale si tolse la vita il 27 gennaio dello stesso anno. L’accaduto provocò un dolore immenso all’amico Faber. Al quale conseguirono una serie di riflessioni che trascrisse in poesia.

“L’ho dedicata a Tenco. Scritta, o meglio pensata nel ritorno da Sanremo dove c’eravamo precipitati io, la mia ex moglie Enrica Rignon e la Anna Paoli. Dopo aver visto Luigi disteso in quell’obitorio (fuori Sanremo peraltro, perché non ce l’avevano voluto) tornando poi a Genova in attesa del funerale che si sarebbe svolto due giorni dopo a Cassine, mi pare, m’era venuta questa composizione. Sai, ad un certo punto non sai cosa fare per una persona che è morta, ti sembra quindi quasi di gratificarla andando al suo funerale, scrivendo, se sei capace di scrivere e se ne hai l’idea, qualcosa che lo gratifichi, che lo ricordi. Forse è una forma. ma d’altra parte è umano, credo. non l’ho di certo scritta apposta perché la gente pensasse che io avevo scritto apposta una canzone per Luigi, tant’è vero che non c’era scritto assolutamente da nessuna parte che l’avevo composta per lui”. Così lo stesso autore parlò a proposito di “Preghiera in gennaio”.


Elogio della solitudine: poesia del circostante


Analisi del testo

“Il cantore degli ultimi e dei dimenticati”. Così si è sempre descritto Fabrizio De André. La poesia dei suoi brani non fa che mettere alla luce quei lati della realtà caduti nell’oblio. Quelle sfumature troppo di frequente celate nell’ombra. Un’ombra creata ad hoc dalla società, al fine di spostare dai riflettori angoli di vita ritenuti scomodi e/o indegni d’attenzione e importanza. Anche nella canzone sotto esame, Faber non si smentisce. “Preghiera in gennaio” non è unicamente la dedica a un amico scomparso. Si tratta, piuttosto, di un testo atto alla discussione di un tema troppo spesso ignorato. Quello del suicidio. Dalle parole di questo brano si evincono una forte rabbia e un forte senso d’ingiustizia. Dovuto alla maniera disumana nella quale questa tipologia di morte viene trattata. A confermarci ciò è la poesia che ha ispirato il brano.

“Preghiera in gennaio” riflette le parole della poesia “Prière pour aller au Paradis avec les ânes” di Francis Jammes. Ossia: “Preghiera per andare in paradiso con gli asini”. I protagonisti di questi versi sono proprio gli asini. Animali simbolicamente associati all’ignoranza e alla testardaggine. Il poeta, utilizzandoli come metafora, ribalta quest’abitudine antropologica. “Je suis Francis Jammes et je vais au Paradis, car il n’y a pas d’enfer au pays du Bon-Dieu. Je leur dirai: Venez, doux amis du ciel bleu, pauvres bêtes chéries qui, d’un brusque mouvement d’oreilles chassez les mouches plates, les coups et les abeilles. “Io sono Francis Jammes e vado in Paradiso, ché non c’è inferno nel paese del buon Dio. E dirò lor: Venite, del cielo azzurro, amici, povere bestie che con un muover d’orecchi discacciate le api, le busse ed i tafani”.

“Preghiera in gennaio”: una divinità infinitamente buona

“Lascia che sia fiorito
Signore, il suo sentiero
Quando a te la sua anima
E al mondo la sua pelle
Dovrà riconsegnare
Quando verrà al tuo cielo
Là dove in pieno giorno
Risplendono le stelle.
Quando attraverserà
L’ultimo vecchio ponte
Ai suicidi dirà
Baciandoli alla fronte
Venite in Paradiso
Là dove vado anch’io
Perché non c’è l’inferno
Nel mondo del buon Dio”.

La figura di Fabrizio De André non viene di certo associata alla religiosità. Eppure, “Preghiera in gennaio” inizia proprio con un’invocazione divina. Questo perché l’autore non si riferisce al dio osannato dai/dalle cattolici/che. Né da quello venerato da qualsiasi altro credo o corrente filosofica. Egli parla di un essere infinitamente buono. Capace del perdono. Il quale non attua alcun tipo di distinzione tra le creature alle quali ha regalato la vita. Dunque, si tratta di una divinità in netto contrasto con quella proclamata dalla Chiesa Cattolica. La quale rivendica ancora oggi posizioni rigide per quanto riguarda il decesso avvenuto tramite suicidio. “La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente”. Così è riportato nel quinto comandamento del decalogo biblico.

La Chiesa Cattolica non contempla l’atto del suicidio. Lo condanna. Sono frequenti i casi in cui si è arrivati a negare la celebrazione dei funerali delle vittime. Malgrado le motivazioni che potrebbero giustificare questa scelta, il punto focale della questione è un altro. Il cattolicesimo, il quale si premura di considerare i/le suoi/sue fedeli come figli/e e come fratelli e sorelle, non riconosce parte della sofferenza umana. Si ostina, ancora al giorno d’oggi, a considerare coloro che commettono il suicidio come persone colte da un attimo di follia. Come soggetti che hanno voltato le spalle al volere celeste. La realtà è invece ben diversa. Il suicidio non ha nulla a che fare con la follia. Né con la ribellione.

Soffocare il pianto

“Fate che giunga a Voi
Con le sue ossa stanche
Seguito da migliaia
Di quelle facce bianche
Fate che a voi ritorni
Fra i morti per oltraggio
Che al cielo ed alla terra
Mostrarono il coraggio. Signori benpensanti
Spero non vi dispiaccia
Se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
Soffocherà il singhiozzo
Di quelle labbra smorte
Che all’odio e all’ignoranza
Preferirono la morte”
.

Il testo di “Preghiera in gennaio” prosegue con un messaggio d’amore e accoglienza verso la sofferenza altrui. Già all’interno delle prime strofe troviamo la figura di un dio che bacia sulla fronte coloro che giungono nel suo regno per via di un suicidio. A questo gesto d’amore s’aggiunge l’abbraccio. Ulteriore dimostrazione d’affetto. D’accettazione. Di rassicurazione. Infatti, De André tiene particolarmente a evidenziare queste gestualità. Alla faccia dei “Signori ben pensanti” che cita in queste righe, egli propone una riflessione. Qualsiasi essere umano, prima o tardi, conosce il dolore. Dunque, perché si tende a fare distinzione tra diversi tipi di sofferenza? Piuttosto, dovremmo riconoscere lo struggimento che risiede dietro l’auto privazione della vita. Il dio di questa “Preghiera in gennaio” non giudica il fine vita. Piuttosto, spalanca le braccia ai suoi figli e alle sue figlie. Accogliendoli nei suoi cieli. Nei quali, finalmente, le loro lacrime cesseranno di sgorgare.

La fine del dolore

“Dio di misericordia
Il tuo bel Paradiso
L’hai fatto soprattutto
Per chi non ha sorriso
Per quelli che han vissuto
Con la coscienza pura
L’inferno esiste solo
Per chi ne ha paura Meglio di lui nessuno
Mai ti potrà indicare
Gli errori di noi tutti
Che puoi e vuoi salvare Ascolta la sua voce
Che ormai canta nel vento
Dio di misericordia
Vedrai, sarai contento Dio di misericordia
Vedrai, sarai contento”.

Il titolo di questo paragrafo potrebbe apparire come utopico o sensazionalistico. Eppure, non è questo l’intento di “Preghiera in gennaio”. Tutti/e sappiamo che la vita è in parte composta da dolore e sofferenza. Nel momento in cui quest’ultimi divengono così opprimenti da condurre qualcuno/a al suicidio, il giudizio dovrebbe completamente eclissarsi dalla nostra mente. Dovremmo piuttosto ascoltare quel vuoto. Quel tumulto che mai cesserà di fare eco. Addirittura, Faber non solo rivolge questo messaggio ai suoi ascoltatori e alle sue ascoltatrice. Egli lo richiede in maniera specifica al dio del suo brano. (Meglio di lui nessuno mai ti potrà indicare gli errori di noi tutti che puoi e vuoi salvare. Ascolta la sua voce, che ormai canta nel vento).

A volte è proprio l’assenza a rivelarsi presenza. È il silenzio a farsi suono. Un suono che tutti/e siamo in grado d’ascoltare, ma che si fa fatica a cogliere. Poiché troppo spesso coperto da un vocio penetrante. Il quale si perpetua, proprio in quanto incapace di dare adito a quel tumulto. “Preghiera in gennaio” c’insegna che ascoltare non è sempre e solo una scelta. In alcuni casi possiamo piuttosto parlare di dovere. Poiché imparare a cogliere la sofferenza significa comprendere la vita. Oltre che essere in grado di salvare se stessi/e e quella altrui. Di fronte alla morte per suicidio si è soliti/e a sentirsi più impotenti rispetto a quando si ha a che fare con altri tipi di decesso. Si tende a colpevolizzarsi per “Non aver colto alcun segnale”. In realtà non è affatto semplice prevedere quest’atto. Tuttavia, ascoltando la sofferenza senza alcun tipo di giudizio o pregiudizio possiamo fare molto. Possiamo salvare milioni di vite.





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