Caravelle prende il proprio quotidiano e lo trasforma in poesia, vi aggiunge un tappeto musicale e dà vita a una sfilata di immagini ed emozioni.
Quand’è che capisci di aver bisogno della musica per raccontare te stesso e il mondo fuori?
“La musica ha sempre fatto parte del mio quotidiano, ma il cantautore vero e proprio l’ho scoperto solo nel marzo 2020. Ti racconto l’episodio forse più emblematico. Avevo finito la mia prima canzone che, tra l’altro, non ho mai prodotto. L’ho fatta sentire a un gruppo di amici e, devo dire, all’epoca rimasero tutti abbastanza colpiti. Dopo aver ascoltato la canzone cominciammo a parlarne. Una frase del brano recitava: ‘Come caravelle viaggiamo tra le stelle’, e qualcuno cominciò a scherzarci su e a chiamarmi Caravelle. La cosa mi piacque talmente che pensai di usarlo come nome d’arte”.
Oltre ad essere un abile cantautore sei anche un ingegnere aerospaziale. Una cosa non esclude l’altra, ma come riesci a conciliare queste due passioni così diverse tra loro?
“La diversità non è un problema. Se hai la passione, ecco, riesci a fare tutto. Il vero problema è il tempo. Conciliare musica, lezioni universitarie e allenamenti – gioco a calcio, a proposito – diventa davvero un gioco a incastri. La tempistica è fondamentale. Per quanto riguarda la diversità, devo dire che è stimolante, perché mi permette di usare approcci diversi: quello matematico e centrato per lo studio e quello puramente creativo per la scrittura di musica e testi. Mi piace balzare da una parte all’altra”.
Riesci in pratica a fare di tutto e a portare a termine qualsiasi cosa inizi.
“Per adesso ancora resisto” [ride, ndr].
Immagino che, visti gli impegni, la scrittura avvenga nelle ore notturne.
“Assolutamente. Durante il giorno sono molto impegnato, non sto mai fermo. La sera posso arrivare stremato, ma ci sono volte che mi dico: ‘Questa è la sera buona’. Allora imbraccio la chitarra e compongo”.
Tempo fa parlai con un giovane cantautore della musica indie e lui mi disse che il termine “indie” è ad oggi diminutivo di “indefinita”. Voglio prendere spunto da questa battuta e chiederti come definiresti la tua musica.
“Mettiamola così: io mi sono approcciato alla musica – al modo in cui scrivo la musica – ascoltando Carl Brave, Franco 126 e tutto quel mondo di artisti che descrivono il quotidiano. L’aspetto romantico, a tratti malinconico, è sempre presente. Descrivo gli eventi quotidiani, le cose che mi capitano durante la giornata e che ci accomunano un po’ tutti. Poi prendo questa quotidianità e cerco di trasformarla in poesia”.
Nelle tue canzoni convivono storie e ricordi legati alla tua città, come in Panchina di Roma – che, a proposito, mi è piaciuta tantissimo –, temi universali come l’amore e i racconti storici narrati da tuo padre. Vorrei soffermarmi con particolare attenzione su questi ultimi. Quali sono questi racconti dai quali attingi?
“Io sono innamorato di Roma, specialmente di quella antica, e ogni tanto stuzzico mio padre sull’argomento. Mi piace chiedergli cose di quando era piccolo. Mi racconta di mio nonno o di quando non c’erano i lampioni sul Lungotevere. Io prendo questi racconti e cerco di trasformarli in canzoni, mischiando il mio vissuto con il suo. C’è una canzone che sto producendo e che parla appunto di questo”.
Come ci si distingue nel vasto mondo della musica indipendente?
“Di bei pezzi ce ne sono davvero molti e distinguersi è forse la sfida più grande. Il punto è che bisogna lasciare la propria firma e lo puoi fare solo descrivendo ciò che senti dentro. Se fai questo, e ci aggiungi il tuo personale stile di scrittura, sei sulla strada giusta. Se poi hai un timbro particolare, ecco, lì hai una freccia importante al tuo arco. Appena parte la canzone, chi ascolta dice: ‘È lui’. Se il timbro non ti aiuta, invece, devi puntare su di una penna che lasci il segno”.
Timbro o penna, quindi. Se poi le hai entrambe…
“Lì hai fatto jackpot. Il timbro è quello che forse ti aiuta di più. Pensa a Vasco Rossi. A prescindere dal fatto che abbiamo a che fare con un mostro, appena lo senti, bam!, è lui, lo capisci subito. Se non fosse la voce, lo riconosceresti per alcuni giri di chitarra. Ecco, se riesci ad avere tutto questo, ti distingui. Puoi piacere o meno, ma quando partono i primi dieci secondi di canzone sei lì che pensi: ‘È lui’. Riuscissi ad ottenere quest’effetto, ecco, sarei soddisfatto”.
Il tuo ultimo brano è “Luci di città”. Visto il titolo si potrebbe pensare a un omaggio alla tua città, ma il tema qui è il rapporto di coppia. Racconta un po’.
“Roma c’è sempre perché la vivo ogni giorno. Il rapporto di coppia subentra dopo e lo uso per veicolare un messaggio di spensieratezza. Io sono uno che per carattere tende a non appesantire una situazione. Questo non vuol dire essere superficiale, ma avere quella giusta leggerezza che ti permette di affrontare al meglio le cose. A volte subentrano delle incomprensioni, ma con la giusta dose di leggerezza possiamo lasciarcele alle spalle”.
Dimmi qualcosa dei brani che hai in cantiere.
“Di brani pronti ce ne sono tanti. Io e Rebecca, la mia produttrice, stiamo valutando se far uscire un album o procedere in altro modo. Ci saranno anche dei live, ma questo più in là.”