Un quarto di secolo dopo che il film di Hideo Nakata ha reso popolare l’horror giapponese in tutto il pianeta, il regista ha visitato Sitges per rendere omaggio e presentare un nuovo film.
Sia il folklore che l’onnipotente cinema giapponese sono sempre stati bravi con fantasmi e maledizioni. Ma quello che accadde intorno a The Ring nel 1998 fu un vero e proprio fenomeno paranormale. La fine del millennio si avvicinava e con la globalizzazione, Internet e la digitalizzazione, l’Oriente diventava molto, molto di moda tra una cinefilia desiderosa di nuovi stimoli. In mezzo a tutto questo, apparve un film misterioso su una videocassetta che causava la morte di chi la guardava. Hideo Nakata era allora uno sconosciuto, ma ha lasciato immagini molto inquietanti che possono essere viste come una metafora del cambio di millennio, del salto dalla tradizione alla postmodernità, trasferendo i fantasmi della campagna in città e mettendoli in relazione con i dispositivi elettronici della vita quotidiana, come l’immagine del televisore e quella maledetta videocassetta che, ai tempi del glorioso DVD (che ci ha portato la versione originale a casa), era già un’antichità.
⁄ Con l’inizio del millennio, la globalizzazione, internet e la digitalizzazione, l’Oriente è diventato di gran moda tra una cinefilia desiderosa di nuovi stimoli.
Venticinque anni dopo, Nakata è tornato al festival dove The Ring è stato il miglior film – a Sitges ’99 – per essere premiato con la Máquina del Temps e per presentare un nuovo lavoro, Forbidden Game, che anche se non avrà l’impatto di quello, gioca con alcuni tropi del genere noto come J-Horror, o horror giapponese, come una donna fantasma che chiama la protagonista da un numero sconosciuto (di quelli a cui è meglio non rispondere), avvertendola: “Non avvicinarti a mio marito”. Gelosa fino alla morte, e oltre. Per il resto, sebbene cerchi di adattarsi all’era MeToo attraverso un capo prepotente, e non sia a corto di idee, il risultato è piuttosto goffo. Pur rimanendo inquietante, è ben lontano dall’ipnotico Dark Water, il film con cui Nakata ha superato se stesso (una volta l’ho paragonato con entusiasmo a Deserto rosso di Antonioni). Questa volta il male si manifesta attraverso perdite nere che, come scopre la protagonista, una madre single, provengono da un bacino idrico in cui è annegata una bambina. I fantasmi del J-Horror tendevano ad essere bambini o donne con capelli bagnati, occhi vuoti, pelle marmorizzata e un aspetto generale tanto malsano quanto assolutamente terrificante.
In brevissimo tempo, The Ring ha avuto prequel, sequel e remake, tra cui l’immancabile versione americana, interpretata da Naomi Watts e diretta da Gore Verbinski nel 2002. Lo stesso Nakata si è occupato del sequel hollywoodiano, con risultati deludenti. Anche Dark Water ha avuto un remake negli Stati Uniti, questa volta firmato dal brasiliano Walter Salles e interpretato da Jennifer Connelly, una delle più autentiche scream queen dell’Occidente – il suo primo ruolo da protagonista fu in Phenomena (Dario Argento, 1985) -.
La febbre del J-Horror sembrava non avere fine: nel 2003, un titolo come Missed Call sembrava ancora innovativo, tanto da avere due sequel decisamente inferiori. Il primo Call era stato realizzato dal prolifico ma discontinuo Takashi Miike, un regista che si era fatto notare per il magnifico Audition. Il più intellettuale Kiyoshi Kurosawa, regista di non pochi capolavori come Cure, un thriller enigmatico su assassini con amnesia, ha marcato la differenza con lo straordinario Pulse, dove i fantasmi provenivano dalla Rete.
Il J-Horror ha avuto persino il tempo di riflettere su se stesso con il metacinematografico Strange Beings, dove l’uomo con la macchina da presa, a caccia di una leggenda urbana nel sottosuolo di Tokyo, non era altro che Shinya Tsukamoto, il regista del rivoluzionario Tetsuo (1989). Ma, come ricorda Ángel Sala, direttore del Festival di Sitges, “la bolla si sgonfiò perché si ripetevano troppo gli stessi schemi, fino all’autoparodia. C’era un’exploitation interna molto giapponese, con un crossover come Sadako vs Kayako, in cui si affrontavano i fantasmi di The Curse e quelli di The Ring, e c’era anche una saga chiamata Sadako 3D, che ha i suoi fan, ma non era buona”. L’eccessivo sfruttamento ha ucciso il J-Horror.
Noroi”, forse “l’ultimo grande film J-Horror vero e proprio”.
“Il cinema horror giapponese non è al suo meglio”, ammette Sala. Anche se stiamo parlando di horror puro, non di cinema fantastico, gore, thriller o altri strani fenomeni come la fortunata commedia meta-zombie One Cut Of the Dead (Shin’ichirô Ueda, 2017), che ha subito un remake francese ad opera dell’ineffabile Michel Hazanavicius. Ci sono registi come Sion Sono, molto venerato dagli appassionati fin dai tempi di Suicide Club (2001) – film di culto che si apriva con l’indimenticabile immagine di un centinaio di studentesse che si gettavano sui binari della metropolitana – che occasionalmente presentano titoli come il monumentale Love Exposure (2008), ma sfuggono alla classificazione.
“L’ultimo grande film J-Horror vero e proprio potrebbe essere stato Noroi, già poco distribuito in Occidente, anche se negli ultimi anni è diventato un fenomeno di culto. Si trattava di un film in found-footage su una maledizione”. Il sottogenere basato su presunti found footage ha portato anche a decine di film giapponesi a bassissimo budget, anche se in questi casi l’orrore è rimasto in patria, senza più conquistare il mondo.