Sonohra Trio Project Live a Roma: Intervista a Luca Fainello

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Si è tenuta ieri sera, venerdì 6 dicembre, presso La Locanda del Gusto Live di Roma, la tappa nella Capitale del duo veronese, composto dai fratelli Luca e Diego Fainello, accompagnati dal bassista Matteo Vallicella.

“Sono stati veramente bravi, si vede tanta tecnica musicale. Speriamo davvero di poterli ospitare anche l’anno prossimo.” Descrive con queste parole l’esibizione dei Sonohra Francesco Carluccio, proprietario insieme al fratello Antonio, del locale che ha ospitato la serata. Infatti con più di un’ora e mezza di pezzi originali e cover, arrangiati in chiave folk, il trio ha saputo magistralmente intrattenere il pubblico. La serata è stata introdotta dalle esibizioni di alcuni allievi della scuola Colors of Music, coordinati da Simone Bufacchi e Giulia Lanzeroti, i quali si sono esibiti sia in duetto, sia accompagnando il Trio stesso.

Che cos’è il Sonohra Project Trio, un progetto che va avanti da diverso tempo e come è nata l’idea di arrangiare le vostre canzoni e le cover in chiave folk?

L’idea è nata dal voler staccarsi da tutto ciò che è il mainstream e fare per una volta nella nostra vita quello che ci piaceva senza badare troppo alle regole imposte dal commercio. Ed è nato così questo progetto nel quale siamo liberi di comporre e di arrangiare facendo il genere che più ci piace. Abbiamo visto che comunque stiamo suonando tantissimo e che il pubblico risponde molto bene.

Classica domanda che vi viene posta. Sanremo 2008, l’esordio. Solitamente gli artisti hanno due tipi di reazione di fronte alla canzone che li ha resi famosi: o cercano di distaccarsene a tutti i costi e di scrollarsela di dosso, oppure ne rimangono affezionati, con il rischio di restarne incollati. Voi questa sera avete suonato “L’amore”, il vostro pezzo più noto, senza problemi. Qual è il vostro rapporto con l’amore e odio scaturiti da un brano cult, con cui si inizia la carriera?

Esattamente, è un rapporto d’amore e d’odio perché tanti ti etichettano e ti ricordano con la canzone di quando erano ragazzini e magari tralasciano tutto quello che c’è stato dopo. Ma è comunque parte della carriera di un’artista avere un brano molto famoso che arriva alle masse. Basti pensare a Cesare Cremonini che ai concerti suona ancora 50 Special e il palazzetto o lo stadio vanno in delirio. Questo testimonia che tutti gli artisti sono legati ad un pezzo in particolare e tutto quello che viene dopo è la maturazione, insomma.

Nel mondo del cinema c’è attualmente un grande dibattito riguardo alle nuove piattaforme digitali, come Netflix, che stanno mettendo in crisi l’economia cinematografica. Nella musica è un po’ lo stesso, ormai tutta la musica del mondo è in un cellulare, si è persa l’idea di supporto musicale, come il vinile o il CD ed è stata intaccata anche l’esibizione live. Qual è stato, se c’è stato, il vostro rapporto con la musica in digitale e quanto secondo voi questo nuovo modo di fruire della musica influenza i cantanti stessi?

Diciamo che la globalizzazione della musica ha generato ovviamente questo. Sicuramente per l’utente è molto positiva. Però di fatto non si dà più valore reale alla musica, si toglie quello che prima era, di fatto, mistero. Una volta si andava al concerto di un’artista perché si vedeva una locandina appesa o si sentiva una canzone in radio. Adesso tutto questo non c’è più, anzi, c’è fin troppa roba e questo svilisce un po’ la musica, le toglie un po’ di anima. Tanti artisti, se non i più famosi fanno infatti fatica a fare concerti, a fare paganti, perché avendo tutto nel cellulare, non c’è più la curiosità di andare e vedere l’artista dal vivo, basta averlo qua, sullo schermo.

Voi avete prodotto tantissime canzoni in inglese e in spagnolo, addirittura un intero album, Libres, versione spagnola di Liberi da Sempre (il loro album d’esordio N.d.R). Avete mai pensato a come sarebbe stata una carriera dei Sonohra fuori dall’Italia, o lo avete addirittura mai preso in considerazione?

Ovviamente è difficile oggi dire se sarebbe stato meglio, ma per le nostre attitudini un mercato anglosassone sarebbe stato più proficuo, avrebbe attirato più gente. Ma adesso con i live andremo in Germania ad esempio, appunto perché questo genere si addice di più all’estero. Chiaramente va anche in Italia, ma i circuiti non li trasmettono. Però ci sono artisti come i Bon Iver che a Verona hanno fatto 13000 persone e se io chiedo a mia madre cosa sia “Bon Iver” non lo sa. Eppure sono generi che vanno tanto, anche se nel sottobosco, è una nicchia che comunque a volte risponde meglio del mainstream.

Quest’estate avete aperto il concerto di James Bay a Verona e avete condiviso sui social anche il vostro essere suoi fan. James Bay è una star giovanissima, ha più o meno l’età che avevate voi agli esordi. Cosa è cambiato secondo voi oggi nell’ascesa di una star giovane, anche con l’avvento dei reality?

Nel nostro caso la televisione ha avuto un ruolo fondamentale. Oggi sembra invece che tutto quello che esce dalla tv non funzioni, perché tutto quello che funziona esce comunque dal web o da un genere che comunque la radio o le case discografiche si sono rese conto tardi che stesse funzionando. Per esempio l’indie: l’indie è il pop di oggi, ma quattro o cinque anni anni fa, se Calcutta fosse andato da Sony o Warner gli avrebbero riso in faccia, mentre oggi fanno a gara e mettono in gioco tanto denaro per avere questi artisti sotto contratto. Questo ti fa capire che la gente si è stancata di quello che sono le diffusioni di massa, tutti gli artisti che senti in radio, a parte i cinque o dieci big della musica italiana, fanno poi fatica nei live o nelle vendite. Lì senti in radio per questione di edizione, ma è un mercato un po’ falsato e non si sa dove si andrà a parare. Siamo ad una sorta di anno 0, dove tutto alla fine adesso si può fare ed è concesso, infatti molte cose nuove stanno venendo fuori. Noi nel nostro piccolo abbiamo visto che questa situazione, questo progetto ci asta portando un nuovo pubblico. Tutti gli addetti ai lavori ci avevano detto che sarebbe stata la nostra fine, mentre in realtà è più un nuovo inizio, perché facciamo tutti i locali pieni. Suoniamo in locali più piccoli ma che si riempiono, magari cinque o dieci anni fa eravamo il fenomeno del momento ma non avevamo un certo tipo di pubblico. Quindi penso che siamo in un periodo in cui sono cambiate tante cose rispetto al passato, è molto più difficile emergere ma si ha anche la possibilità di fare ciò che si vuole.

Nel vostro penultimo album “Il Viaggio” è contenuta una canzone intitolata “Continuerò”, che recita così: “Continuerò a costruire un sogno finché sogno”. Ecco, il sogno dei Sonohra ragazzini qual era? Si è avverato o c’è ancora da fare?

Si è avverato, ma c’è ancora tanta strada da fare. Il nostro sogno comunque è fare i musicisti e stiamo vivendo questa vita attuale per far sì che questo sogno continui ad esistere, perché fare i musicisti non è affatto facile, soprattutto dal punto di vista economico. In ogni caso è quello il nostro sogno e finché possiamo lo facciamo.

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