Riccardo Fogli: “Ero rock e rivoluzionario”

0
2858
Riccardo Fogli:

Un’ipnosi regressiva autoindotta attraverso la scrittura, un viaggio nei ricordi di una vita. Nel suo libro, Predestinato (Metalmeccanico), Riccardo Fogli racconta di come la sua ardente passione l’abbia trasformato da predestinato metalmeccanico a icona della musica italiana e internazionale.

Perché Predestinato (Metalmeccanico)?

“Perché sono figlio di un padre che faceva il fabbro e che, quando è tornato dalla guerra, ha scoperto che non c’erano più cavalli da ferrare né ferri da lavorare. E quando a Pontedera ha aperto la Piaggio è diventato metalmeccanico. Aveva uno stipendio ogni mese, che per lui era il paradiso in Terra, e mamma mi ha raccontato che di domenica, ad ora di pranzo, papà si alzava e pregava. Diceva: ‘Dio, fa’ che anche il mi’ figliolo diventi metalmeccanico come me’. E alle scuole medie, invece di studiare le materie che neanche mi ricordo più quali erano, limavo il legno e il ferro, perché ero predestinato metalmeccanico”.

A quanto pare le preghiere del suo babbo non hanno sortito l’effetto desiderato.

“Sono stato fortunato e ho avuto costanza. Le racconto questo episodio: il primo calcio al pallone l’ho dato a 35 anni, perché da ragazzino avevo nelle orecchie la voce di mamma che diceva: ‘Nini, non rovinare gli scarpini, perché c’hai solo quelli’. Seguivo l’indirizzo di mia madre e, a 35 anni, mi ritrovai a calciare un pallone solo perché Morandi mi chiese se sapevo giocare. Quando invece sentivo un coro, mi mettevo ad ascoltare. Se c’era da cantare mi proponevo. Nel dettato di musica, alle medie, capivo subito tutto. Questo per dire che, per quanto riguarda la musica, seguivo il mio istinto. E mentre gli altri giocavano a pallone, io studiavo solfeggio o suonavo il basso con una vecchia chitarra che mio fratello non ha mai usato, dopo aver tolto le corde di Si e Mi”.

Cominciava a delinearsi la strada che avrebbe poi percorso.

“Ero innamorato della musica. Quando andavamo alle feste da ballo organizzate dalla Piaggio, io mi mettevo ad ascoltare l’orchestra e guardavo. Guardavo. Questo era il mio mondo”.

Molto spesso la passione musicale passa, come per osmosi, dai genitori ai figli. Lei ha avuto qualche input in tal senso?

“Ti posso dire che mia madre canticchiava. Mentre faceva gli occhielli alle maglie, ascoltava e canticchiava le canzoni di Tonina Torrielli, Carla Boni, Claudio Villa e Luciano Tajoli. E ascoltavo lei. Per il resto è stato tutto frutto di tanta fatica. Non nasco imparato e non mi è mai venuto niente facile. Mi sono messo lì e ho imparato a suonare il basso, a cantare e a suonare la chitarra. Ho imparato a guadagnarmi da vivere con la musica”.

Quindi è stata tutta questione di applicazione e tenacia?

“Passione. Molti stonati hanno passione per la musica. Questo per dire che non per forza bisogna nascere figli di Beethoven, Mozart o Morricone. Se tu hai passione, in qualche modo, pian piano, organizzi la tua passione e ce la fai. Certo, ci vuole un po’ di fortuna e devi trascurare alcune cose. Come ti dicevo, io non ho mai giocato a pallone. Quando gli altri giocavano, una parte di me soffriva e non vedevo l’ora di tornare a casa a fare solfeggio e a suonare la chitarra che avevo trasformato in un basso”.

A posteriori è facile parlare di scelta azzeccata ma, quando ha cominciato a organizzare la sua passione, immagino fosse tutto un punto interrogativo. Dove ha tratto la fiducia necessaria che le ha permesso di proseguire lungo la strada maestra?

“La mia mamma è un mito e mi ha sempre incoraggiato. Non solo a fare musica, ma a prendere decisioni. Mi ha sempre detto: ‘Nini, se te pensi che sia giusto… Cerca solo di non far soffrire le persone quando prendi una decisione, questo è quello che ti chiedo. Per il resto, la vita è tua. Fai le cose fatte bene però, eh, Nini’”.

C’è tanta saggezza in queste parole.

“I nostri vecchi erano saggi”.

Una svolta per la sua carriera arriva dall’incontro con Negrini e Facchinetti. Come ha capito che erano le persone adatte con cui formare questa alleanza di talenti?

“Non l’ho capito. Non ero in grado di capire, perché ero un metalmeccanico che per hobby, anziché andare a pesca o giocare a pallone, cantava e suonava. La mia band di Piombino, gli Slenders, era composta per lo più da metalmeccanici. I Pooh erano bravi, ma noi eravamo altrettanto bravi e forse eravamo più beat, più rock e più incavolati di loro. Loro erano di buona famiglia, di cultura superiore alla mia e musicalmente più preparati di me, ma io avevo la cazzimma, la rabbia. Avevo questa energia, questo talento che non era un talento musicale ma era più voglia di scoprire e di farcela. Poi, quando ho cominciato a frequentare Valerio… Valerio era un ragazzo coltissimo, geniale e generoso. Nei viaggi in pullmino, gli chiedevo delle robe…”

Tipo?

“Tipo: ‘Ma l’Italia perché si chiama Italia?’ E lui diceva: ‘Piombinese, sei un èsen’, sei un asino, e mi spiegava. Lui sapeva tutto. Quando avevo un dubbio musicale, invece, era Facchinetti a sapere tutto. E la fortunata frequentazione di persone così geniali mi ha permesso di assorbire qualche briciola del loro genio”.

C’è stato un momento, nel corso della sua carriera, in cui ha pensato: “Ecco, sto adempiendo al mio destino”?

“Questa è una riflessione così profonda che non ero in grado di fare. Sapevo però che mi piaceva molto e che mi divertivo. Per parecchi anni, finché non sono arrivate Tanta voglia di lei, Pensiero ecc., io ero in giro con i Pooh ma, quando avevo dieci giorni liberi, tornavo a Piombino e facevo il gommista. Non ho mai pensato di aver raggiunto un gradino della scala sociale superiore a quello degli altri. Nonostante fossi stato in televisione e avessi venduto più di 100.000 copie di Piccola Katy, non mi sono mai sentito arrivato. Qui non puoi mai sentirti al sicuro o arrivato, e ce lo insegnano gli esempi del passato. Da oggi a domani tutto può cambiare e finire. Io sono caduto tante volte, mi sono rialzato, sono ricaduto e mi sono rialzato”.

Oltre alla tenacia, quindi, un’altra qualità necessaria per attirare il successo è l’umiltà.

“Spesso mi dicono: ‘Lei è umile e semplice’, ma io non sono semplice. Io sono complicatissimo. Sono agitato. Conoscendo i miei limiti e le mie origini, una vera e sana umiltà fa parte del mio carattere, però poi mi fermo lì, perché a essere troppo umile ci si piglia le pedate nel sedere. Vieni usato. Io ho cercato di non permettere a nessuno di farlo. Nessuno poteva dirmi cosa fare. Io sapevo cosa fare. Chiedevo consigli, sì, ma gli ordini non mi piacevano. Ero rock ed ero beat. Ero un rivoluzionario. A Piombino mi conoscevano come il gommista capellone. Ero il cantante, bassista e gommista capellone”.

In questo libro lei ripercorre tutta la sua vita. Cosa l’ha indotta a scrivere un’autobiografia? C’entra qualcosa il particolare momento storico che stiamo vivendo?

“C’entra nel senso che mi ha dato il tempo. Quello che mi ha indotto a scrivere è stato il fatto che, più il tempo passa, più dimentico qualche nome. I nomi degli hotel, delle città… Che poi di colpo mi tornano in mente, eh. Allora mi sono detto: ‘Potrebbe essere il momento di aprire tutti i cassetti’. Scrivere è stata una sorta di autoipnosi regressiva, che ti permette di scavare e scoprire cose che si nascondono in qualche angolo del tuo cervello. Sono lì, ma ti vengono in mente solo attraverso un processo durante il quale racconti una cosa, la scrivi, e mentre la scrivi te ne viene in mente un’altra e così via”.

E quali ricordi nascosti sono riaffiorati mentre scriveva?

“Episodi di quando mamma comperava un coniglietto al mercato perché un giorno lo mangiassimo, ma io non lo sapevo. Questo coniglietto diventava il nostro migliore amico per venti giorni, e poi un giorno spariva. Mamma mi diceva: “Nini, quel coniglietto era vecchio ed è morto. Allora, Nini, io che ho fatto, l’ho spellato e ora lo mangiamo’. E io piangevo, piangevo, e poi lo mangiavo. E queste cose mi sono venute in mente scrivevo. Tre anni fa non le ricordavo, mentre ora potrei scrivere un libro di particolari. Ricordo la pelle del coniglietto messa a seccare su un palo e un signore un po’ sporco, con la barba lunga, che gridava: ‘Donne, è arrivato il pellaio!’. Mamma gli vendeva la pelle, e anche questo era un avvenimento, perché questo signore ci dava un soldino che io usavo poi per le giostre. Questo mi ricordo. Però ci sono anche dei buchi nei ricordi”.

Forse quei buchi contengono dettagli poco rilevanti.

“Vero, probabilmente è così. O forse contengono quelle cose che il mio cervello ha elaborato negli anni, prima di dormire o nei sogni. Ecco, insomma, alla fine comunque le cose tornano”.

Quando ha parlato di ipnosi mi è tornata in mente un’intervista di Stephen King. In un passaggio King dice che “scrivere è ipnotico” e che lo scrittore compie una sorta di psicoanalisi, con la differenza che poi non deve pagare lo psicoanalista ma, anzi, è la gente a pagare lui per sapere quel che gli frulla in testa.

“È esattamente questo. E mentre scrivevo ho capito che la verità non è quella che ti racconti da solo, come alibi. La verità è una sola. Ad esempio, ricordo che c’avevamo una prof., alle medie, che ci annusava. Annusava tutti, soprattutto noi poveri, e faceva una faccia un po’ così. Ricordo che mamma, prima di uscire, mi prendeva da parte e mi diceva: ‘Nini, vieni qui, fammi vedere se c’hai le orecchie pulite’, e alle volte mi dava una spruzzata di dopobarba di papà. È bene ricordare che un tempo si faceva il bagno in una tinozza. La si riempiva d’acqua calda e noi facevamo il bagno in questa tinozza. Dico questo perché, se ci pensi, spesso ci girano le scatole se la doccia non butta bene o se l’asciugamano non è abbastanza morbido, e dimentichiamo che tanto tempo fa accadeva quel che ti ho raccontato”.

La verità, dunque, è che diamo per scontate cose che invece non lo sono.

“In tante parti del mondo, tantissime parti del mondo, l’acqua è un bene prezioso, lavarsi è un bene prezioso, un asciugamano è un bene prezioso. Ecco, noi stiamo perdendo un po’ di vista questo. Ecco, questo libro mi ha riportato alle origini. E questo mi ha fatto bene, anche se io non ne avevo bisogno, perché io sono un parsimonioso… Sono un maratoneta. Quando prepari una maratona, stai sulle gambe due anni, da solo con te stesso, in mezzo ai campi o alle colline, con la pioggia o con il vento. E quando stai solo con te stesso e soffri un po’, ti si apre il cervello. Le endorfine ti fanno vedere le cose che avevi dimenticato”.

L’uscita di questo libro è stata anche una piacevole scusa per tornare in studio e registrare diversi brani. Tra le canzoni incluse nel disco che accompagna il libro spicca una versione riarrangiata del brano Storie di Tutti i Giorni, che è una vera chicca.

“Questo è un regalo del mio editore, Marco Rossi, che ha accettato questa mia idea. Storie di tutti i giorni ha un po’ cambiato la mia vita, l’ha facilitata. Ha fatto il giro del mondo ed è andata a trovare tutti gli italiani che abitavano dall’altra parte del mondo, in Australia, Canada, Stati Uniti ecc.. Il maestro Ottolini ha fatto un arrangiamento geniale. Io sono entrato in sala d’incisione e ho sentito questo suono travolgente che mi ha entusiasmato. E visto che stavo scrivendo, ci è venuta l’idea di allegare a questo cd con 16 brani anche il libro. Poi è successo che, mentre leggevo al mio editore il libro, lui mi dicesse: ‘Ma Riki, la tua voce è così descrittiva che potremmo fare un audiolibro’. Io pensavo che gli audiolibri li facessero solo gli scrittori veri”.

Il disco contiene anche un brano dedicato a suo figlio.

“L’ho scritto dieci anni fa. Si chiama La tenerezza. Ricordo che ero in giro per il mondo e mio figlio non mi rispondeva al telefono… Mio figlio è un ragazzo meraviglioso e non lo cambierei con nessuno al mondo. Un giorno gli ho scritto una mail, che poi ha letto, e parlando con lui di questa mail mi è venuto in mente di approfondire. Noi siamo in debito con i nostri figli. Parlo di quelli della mia generazione, i figli dei fiori che volevano cambiare il mondo con le loro canzoni. C’è poi chi è entrato in banca e chi è diventato un fortunato musicista. E quando io mostro il mio mondo a mio figlio, comincio a vergognarmene”.

Perché comincia a vergognarsene?

“Perché di quel mondo là, di cui noi abbiamo goduto, non c’è rimasto quasi più niente. E quindi io chiedo scusa a mio figlio in questa canzone e mi auguro che lui vinca la sua battaglia, ma con la tenerezza. Perché è solo la tenerezza che ci può salvare. Essere gentili con il mondo e con noi stessi. Essere tolleranti, studiare ed essere preparati. Ecco, questo è fondamentale”.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here