“More Heroes” – Riflettori sul Punk: Suicide

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Suicide

“More Heroes” è una rubrica dedicata alla scoperta dei più grandi nomi che hanno fatto la storia del punk, molti dei quali non conosciuti adeguatamente come meriterebbero. Oggi i riflettori sono puntati sui Suicide.

Una band troppo estrema

I Suicide furono un duo nato a New York nel 1971 dall’incontro tra il cantante Alan Vega (vero nome Borouch Alan Bermowitz) e il tastierista Martin “Rev” Reverby. Adottarono il nome Suicide ispirandosi al titolo di un fumetto di “Ghost Rider”.

Benché la loro musica sia di matrice elettronica, il duo è considerato fondamentale per la nascita della scena punk. Proponevano un sound molto scarno, ripetitivo e per nulla melodico realizzato con l’ausilio di una tastiera e una drum machine degli anni ’50. Le performance di Vega erano caratterizzate da gemiti, urla e flagellazioni con un pugnale o una catena e un cantato spesso vicino al parlato. I temi trattati vertevano su storie di alienazione, disagio e morte. Ebbero molto difficoltà a trovare posti dove suonare, anche a causa della sigla che adottarono. In anni di fervente cambiamento della scena musicale e dalla nascita di band con comportamenti trasgressivi, fu molto difficile per i Suicide trovare un proprio pubblico.

Il primo album

Nel 1977 riescono ad esibirsi frequentemente al celebre CBGB, locale celebre e vero punto di riferimento per la scena punk newyorkese. Nello stesso anno l’ex manager dei New York Dolls Marthy Thau inaugura la sua etichetta discografica, la Red Star Records. E il primo disco prodotto è l’album omonimo dei Suicide.

La copertina del primo album dei Suicide

Nonostante all’epoca sia risultato un fiasco commerciale, si tratta di un’opera inquietante e sinistra che negli anni ha raggiunto lo stato di cult. Contiene i pezzi più celebri del duo, frutto dei sei anni di gavetta precedenti, come “Ghost Rider” e “Rocket U.S.A.” Un disco ripetitivo, monotono e tragico che trova il suo zenit nei dieci minuti e più di lunghezza del brano “Frankie Teardrop”, storia di un giovanissimo operaio che, disperato per la pesantezza della sua esistenza, uccide la moglie e il figlio neonato per poi togliersi la vita.

Subito dopo la pubblicazione i Suicide vanno in tour e avranno occasione di fare da spalla anche ai Clash in Europa. Un LP live pubblicato nel 1978 fotografa perfettamente la loro condizione, ossia quella di esibirsi di fronte ad un pubblico scioccato che riversa sul palco, insulti, sputi, urla e lanci d’oggetti. Tutto il tour si rivela un completo insuccesso.

Dopo il 1980 e l’eredità della band

Nel 1980 viene pubblicato il secondo lavoro dal titolo “Suicide: Alan Vega-Martin Rev”, ma si rivela l’ennesimo insuccesso malgrado sonorità meno cupe. Nonostante di fatto la loro storia possa concludersi qua, i Suicide hanno inciso nel corso degli anni altri tre album, oltre a pubblicare diverse testimonianze dal vivo, riedizioni dei precedenti lavori arricchiti di nuove tracce, e ad esibirsi spesso in concerto. Nel tempo molti musicisti hanno dichiarato quanto grande sia stata l’influenza dei Suicide. Testimonianza sono diverse cover dei loro brani reinterpretate da band quali The Cars, R.E.M, Rollins Band. Nel 2005 Bruce Springsteen, grande ammiratore del duo, chiudeva ogni data del tour “Devils And Dust” con una cover di “Dream Baby Dream”, singolo pubblicato nel 1979.

La fine dei Suicide è stata sancita nel luglio del 2016 con la morte di Vega all’età di 78 anni.

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