Cristiano Godano: cantante, chitarrista, autore, fondatore e anima dei Marlene Kuntz, una delle più importanti band della musica rock italiana: «Sui social ci barcameniamo tra la comunicazione e l’integrità della nostra arte». «Non dobbiamo gridare “il rock è morto!”, ogni fenomeno ha il suo periodo». «Un artista ha il dovere morale di intervenire nella vita sociale e politica».
È un ottimo venerdì sera. Mi dirigo con la macchina verso Casina Trovanza a Massafra, in provincia di Taranto. Ad accogliermi mentre parcheggio c’è un meraviglioso tramonto che abbraccia con la sua luce l’amena villetta di campagna incorniciata nel suggestivo parco naturale “Parco delle Gravine”.
Oltre al tramonto, viene ad accogliermi anche Vincenzo Parabita, organizzatore e ideatore di Aperitivo d’Autore, di cui l’evento sta per prender vita. Mi dice che l’ospite della serata è nella villa e che appena sarà pronto verrà a chiamarmi per l’intervista.
Quando dalla redazione mi avevano segnalato la possibilità di intervistare il leader dei Marlene Kuntz avevo accettato quasi con superficialità l’incarico; ora sento il peso dell’ansia da prestazione che precede ogni intervista ad una celebrità.
Cristiano Godano, cantante, chitarrista self-made – come lui ama definirsi –, autore e poeta dei Marlene Kuntz, con i quali festeggia quest’anno il trentesimo anniversario di musica insieme alla band di Cuneo.
Ma facciamo già un passo indietro: non parleremo solo di musica; sono stato invitato ad intervistare Godano ad un evento culturale che vede la presentazione del suo libro “Nuotando nell’aria”, edito da La Nave di Teseo.
Come il suo autore ricorda spesso, non si tratta di un’autobiografia bensì di un racconto di viaggio che ripercorre il “backstage del processo creativo” ripercorrendo la storia dei primi tre album della band.
Prima della presentazione vera e propria ci si gusterà un ricercato aperitivo, realizzato da Symposium Cafè e accompagnato dalla degustazione libera dei vini di Cantina Lama di Rose. E prima ancora, l’intervista.
Mi sembra il momento ideale ed io non voglio fargli domande sul libro. Per quello ci sarà tutta la serata.
«Cristiano è pronto». Vincenzo mi accompagna all’ingresso della casina. Entriamo. Lui mi presenta al cantante dei Marlene Kuntz; ci stringiamo la mano. Poi esce. Rimaniamo io e lui. Soli ed entrambi un po’ imbarazzati. Mi indica la cucina, lo seguo e da quest’ultima accediamo al ben ventilato balconcino che si affaccia sullo spiazzo in cui tra un po’ si terrà l’aperitivo. La gente comincia ad affollarsi di sotto.
Nuotando nell’aria. Dietro 35 canzoni dei Marlene KuntzNoi ci sediamo.
P.D. «Ho letto che nel 2009 è diventato docente alla Cattolica di Milano dove insegna Comunicazione Musicale. Cos’è cambiato nel mondo della comunicazione con l’avvento dei social media?».
C.G. «Dammi del tu… È un aspetto nei confronti del quale mi arrovello da un bel po’ per cercare di capire come gestire i social. È un modo particolare di entrare in comunicazione con gli altri che ha a che fare con internet e ad esser sincero mi mette in particolare difficoltà. Ho la sensazione che si stiano verificando alcuni fenomeni che bisognerebbe attenzionare meglio. Quando io cerco di fare comunicazione in rete, cosa che riguarda un po’ tutti noi, non solo musicisti, abbiamo a che fare con internet per comunicare le nostre esigenze di promozione delle nostre attività, eventi, concerti, presentazioni di libri etc… Si sta verificando qualcosa nel web che in ambito sociale gli interpreti dei fenomeni sociali e civili stanno inquadrando con l’immagine della famosa “forbice”. Da una parte c’è una percentuale molto grossa della popolazione, che è quella più povera, e dall’altra c’è una fetta più piccola ma con una percentuale di ricchezza di gran lunga superiore a quella dell’altro gruppo di persone, per questi ultimi le cose sono chiaramente molto più complicate. E stando così le cose, mi sembra molto difficile fare engagement, arrivare a comunicare come si dovrebbe per far arrivare il nostro messaggio a chiunque. I social sono gratis. Chiunque può dire la sua. Noi non possiamo pretendere di essere più interessanti di tutti gli altri. Per come funzionano gli algoritmi la potenzialità di poter arrivare a tutti è bassissima ed è una situazione particolarmente frustrante perché ho la sensazione che i post che noi facciamo arrivino sempre alle stesse persone. Se, ad esempio, in un post qualsiasi uso la parola “Salvini” gli algoritmi si scatenano e arrivano un sacco di persone, di fake e di hater che si scatenano… Alle volte, anche se ciò che facciamo di artistico non ha niente a che fare con Salvini – uso il suo nome come potrei utilizzare quelli di altri in diversi momenti storici –, sono tentato dal fare questo esperimento. La degenerazione della comunicazione estrema in rete cerca di far reagire in fretta gli algoritmi stuzzicando le emozioni della gente e sopprimendo ogni ragionamento, e questo è molto volgare, molto schifoso, molto triste. Il nostro pubblico invece è diverso, e si aspetta la raffinatezza a cui lo abbiamo abituato in questi ultimi trent’anni. Tendenzialmente però, questo tipo di atteggiamento più ragionato funziona pochissimo. Lo sappiamo benissimo. Ma queste cose, il modo di intervenire sulle emozioni istantanee, queste tecniche bisogna tenerle a mente se si vuol fare comunicazione. Su questo non si discute. Penso che con internet sia nato qualcosa sì di molto potente ma solo per i più fortunati dal punto di vista economico. Solo poche persone, per lo più già mainstream, riescono a raggiungere molte più persone. Gli altri invece no. Per cui quello da fare è cercare di tenersi stretti i propri fan e cercare di non perderli facendo queste scivolate di stile, svendendosi per l’engagement».
P.D. «Sì, in effetti in questi ultimi anni si ha la sensazione che i proprietari dei social vogliano ciascuno munger la sua vacca. Se vuoi avere la stessa copertura mediatica di due anni fa, devi pagare. Altrimenti è come se non esistessi».
C.G. «Facebook ad esempio non è più il social di riferimento. Poi hanno anche cambiato gli algoritmi con dei piani, secondo me – e io non sono uno complottista – più maligni che benigni dietro l’impostazione di certi social, con una visione di colonizzazione del mondo e ne subiscono le conseguenze l’80-90% dei fruitori».
P.D. «Quindi potenzialmente come mezzo, i social e la rete, servono ma…».
C.G. «…ma siccome l’umanità ha dato ampia prova di attingere alla parte maligna e malevola della sua inclinazione – sennò non esisterebbero le guerre che sono la prova certa dell’idiozia dell’umanità – per cui internet verrà sfruttato dai pochi a discapito della moltitudine».
P.D. «E in che misura questo, nella vostra percezione di artisti, influenza e intacca la sensibilità del vostro pubblico, o del pubblico in generale? Cosa preferiscono, l’emotività o il sentimento ragionato?».
C.G. «Se si fa un giro sui nostri canali social la comunicazione non perde le caratteristiche che ci si aspetta dai Marlene Kuntz. I nostri post continuano a non avere una furba sintesi, non riescono ad essere impattanti in maniera emozionale, ma ci importa poco. Non vogliamo deludere il nostro pubblico. Noi vorremmo fare engagement, ma ad ora, il prezzo è alto».
P.D. «Sì, è difficile…».
C.G. «… è frustrante. È questa la parola giusta. Non sono ancora riuscito ad intercettare un metodo con cui sia possibile arrivare a più persone che non sia usare la parola “Salvini”».
Sorridiamo.
P.D. «E’ cambiato il vostro messaggio dagli anni novanta ad oggi?».
C.G. «A questa domanda devo rispondere che siamo sempre stati assolutamente indipendenti rispetto al vincolo dei messaggi. Nel corso degli anni non abbiamo mai voluto lanciare messaggi. Abbiamo voluto fare delle cose artisticamente intriganti. Non nascondiamo dei messaggi nelle nostre parole, nascondiamo dei dettagli artistici che ci auguriamo vengano intuiti e compresi da quanta più gente possibile. Questa è la mia visione dell’arte. Però nello stesso tempo, siccome ritengo che l’attualità sia un incubo, e dato che abbiamo nominato Salvini – persona che in questo momento sono contento di sapere lontano dalla possibilità di ambire a diventare il nostro duce – dobbiamo parlare anche di Trump in U.S.A., di Johnson in Inghilterra. Persone che stanno facendo delle cose secondo me discutibili e che però si vanno spaventosamente configurando sotto l’egida di parole come sovranismo, nazionalismo, populismo… Tutte cose che potenzialmente possono portare alle guerre, come sta dicendo anche questo Papa, Francesco, che vogliono azzittire. In questo momento uno come me, e come me i miei sodali M.K., che ha la possibilità di parlare ad un pubblico, si sente investito dal dovere etico e civico di cercare di far capire alla gente quali sono i pericoli di questa cosa. Almeno per noi è così. Siamo consapevoli del fatto che così ci attiriamo anche un sacco di fake e di hater un po’ cretini che si fanno trascinare dal web dandoti della “zecca di sinistra”, del “radical chic”, o scrivendoti “tu pensa alla musica che della politica non capisce niente”. Ma questo genere di intimidazione lascia il tempo che trova, anche se è terribile per certi versi. Un tempo un cantante, un musicista era libero di esprimersi anche sulla vita politica e sociale. Anzi, quasi ce lo si aspettava. Ora invece si ha paura di perdere consensi tra il pubblico».
Far musica, fare arte, significa evidentemente anche questo.
P.D. «Ho letto che avete sonorizzato dal vivo alcuni film muti, creando delle vere e proprie colonne sonore. Quel “dal vivo” ha colpito molto la mia immaginazione. Come si gestisce una band nel mentre di un film? Scrivete la musica prima o improvvisate?».
C.G. «Abbiamo sempre improvvisato. Chiaramente ci facevamo mandare prima il film per prendere confidenza con i momenti topici. In sala prove poi ci suonavamo sopra. Lo facevamo tre, quattro volte per capire dove inserirci. A parte poi i momenti topici, che più o meno rimanevano sempre invariati, si improvvisava. Improvvisare per noi vuol dire avere la capacità, forse non tecnica ma umorale, di creare dei colori, in una maniera molto simbiotica tra di noi. Anche se tutto è impostato in una rigida tonalità. Si fanno dei saliscendi tonali ed emotivi ma al di là di questa ristrettezza, di certo non stimolante per un musicista completo, all’interno di questo saliscendi emotivi i M.K. hanno il loro know how, una loro capacità di essere coesi. Poi all’interno dell’ultimo lavoro che abbiamo fatto con un regista in cui poi abbiamo proprio creato una colonna sonora lentamente – c’era anche l’attore Claudio Santamaria. Abbiam fatto una settimana di prove con il regista e lui ci indicava cosa andava bene e cosa invece no. È stata una costruzione giorno dopo giorno e le cose più belle sono diventate una specie di partitura, anche se nessuno di noi leggeva nulla».
P.D. «Tutto sempre nuovo nel corso della proiezione dei film in tour?».
C.G. «Sì, anche se alla fin fine si sa che cosa fa l’altro, ma ogni volta era come se fosse la prima».
P.D. «Mai una partitura fissa?».
C.G. «Beh dopo trent’anni insieme…».
Ri-sorridiamo.
P.D. «Quanto è diverso dalla scrittura in studio durante la registrazione di un album o di un singolo?».
C.G. «In studio di registrazione abbiamo tutto il tempo che ci serve per meditare. Mentre in tour sapevamo che tra una settimana, ad esempio, dovevam portare un’ora di musica sul palco e stop. In studio hai più tempo e puoi ragionare dicendo “questa cosa e figa, quest’altra no”».
P.D. «Il panorama rock di oggi?».
C.G. «Non è il genere di riferimento. Io sono molto esterofilo ma mi sto impegnando ad ascoltare anche cose fatte in Italia. Sento un’incredibile sequela di gente che imita i vari Calcutta e Thegiornalisti, che non mi piacciono e non mi interessano. Nutro profondo rispetto e ammirazione per loro ma non è la mia storia. Invece, ho sentito un gruppo sardo che si chiama Quercia, che è un gruppo di emo/punk-core, credo… ma al di là del genere, ci ho sentito una potenza e una tale assenza di riferimenti a ciò di cui abbiamo parlato prima – cioè sono talmente per i cazzi loro rispetto alle mode imperanti – che già di per sé mi hanno rapito e voglio ascoltarli meglio. Non ricordo bene il nome di cosa ho sentito, ma penso che approfondirò».
P.D. «Approfondirò anche io. Saranno un tiro d’aria fresca».
C.G. «E’ una potenza che non è nelle corde dei ragazzi di oggi. Proporre roba del genere… wow! È così potente! Il cantante urla tutta la sua intensità. Sembra di sentire gruppi punk americani degli anni ’80».
P.D. «Di gruppi così non ce ne sono più oggi eh?».
C.G. «Non dobbiamo piangerci addosso. Non bisogna gridare: “il rock è morto!” Sono mode. È l’onda».