Se parlassimo di verismo in letteratura, difficilmente ci verrebbe in mente Maria Zef. Probabilmente, il primo nome a saltar fuori sarebbe quello di Giovanni Verga, con la sua cruda rappresentazione della miseria della Sicilia nella sua epoca.
Se invece parlassimo di cinema, forse ci ricorderemmo de La terra trema, la leggendaria trasposizione cinematografica de I Malavoglia. Per recitare nel film, il regista Luchino Visconti scelse esclusivamente attori non professionisti: povera gente di Acitrezza, proprio come i personaggi verghiani, per una pellicola girata interamente in lingua siciliana.
Perché non ci ricordiamo di Maria Zef?
Difficilmente, insomma, ci verrebbe in mente il verismo settentrionale. Probabilmente perché il suo esempio migliore, Maria Zef, ambientato tra le aspre montagne della Carnia, non ha riscosso neanche lontanamente il successo dell’opera verghiana. Eppure, nel 1937, un anno dopo la sua pubblicazione, il romanzo di Paola Drigo vinse il prestigioso Premio Viareggio. E, nel 1981, Vittorio Cottafavi ne trasse un suggestivo adattamento cinematografico, arricchito dalle interpretazioni del poeta carnico Siro Angeli e delle giovanissime Renata Chiappino e Anna Bellina. Film, purtroppo, dimenticato, sicuramente per le particolari scelte stilistiche del regista. Ma anche perché il popolo friulano criticò pesantamente il modo in cui il film lo rappresentava.
Maria Zef e la scelta della lingua
Quello di Maria Zef è uno dei rari casi in cui il film supera il libro in quanto a coinvolgimento nella storia. Ciò è dovuto in larga parte al fatto che, quando Paola Drigo scrisse il suo romanzo, in pieno Ventennio fascista, era obbligatorio adoperare una perfetta lingua italiana nella prosa. Un linguaggio che mal si addiceva ai protagonisti del racconto, rozzi montanari poco o per nulla scolarizzati. Nel 1981, invece, Cottafavi scelse di girare il film nell’idioma originario dei personaggi: un friulano strettissimo, reso comprensibile da sottotitoli didascalici che costringono lo spettatore a sforzarsi di decifrare le numerose espressioni non tradotte. Una scelta suggestiva ma impopolare, che contribuì allo scarso successo della pellicola.
Maria Zef tra violenza e miseria
Sulle alpi carniche, in Friuli, la quindicenne Maria “Mariute” Zef e la sorellina Rosute, di nove anni, vivono in una baita insieme alla madre, allo zio (barbe in lingua friulana) e al cagnolino Petoti. Il padre, fratello di Barbe Zef, è morto molti anni prima, cercando fortuna in America. D’estate, le tre donne vanno in giro a piedi per la provincia, trascinandosi dietro una carretta carica di stoviglie e posate di legno da vendere. D’inverno, vivono isolate nella capanna, impossibilitate a spostarsi per via delle abbondanti nevicate.
Dopo la morte della madre, le due bambine restano sole con lo zio, ed è la giovane Mariute a farsi carico della cura della casa e della sorellina. Quando Rosute si sloga una caviglia, la famigliola trascura il problema finché questo non si aggrava al punto di costringerli a lasciare la bambina in ospedale. Rimasti soli nella capanna, Barbe Zef, ubriaco, abusa sessualmente di Mariute. Disperata, la ragazza si confida con un’anziana vicina di casa con fama di guaritrice, amica della madre. Parlando con lei, Mariute scopre che anche sua madre ha attraversato il suo stesso calvario: ripetutamente abusata da Barbe Zef, la donna è morta proprio a causa delle conseguenze dei frequenti aborti clandestini, praticati da sola con l’aiuto dello stesso Barbe Zef.
Poco dopo, lo zio comunica a Mariute di aver deciso di mandarla a servizio presso una famiglia del paese. Rosute, invece, resterà sulla montagna con lui. Mariute è terrorizzata all’idea che, prima o poi, l’uomo possa abusare anche della sorellina. Quando il barbe, di nuovo ubriaco, cade addormentato, la giovane afferra un’accetta, decisa a ucciderlo nel sonno.
Un mondo senza speranza
Maria Zef descrive un mondo feroce e senza speranza, dove la vittima si trasforma in carnefice, e il carnefice è a sua volta una vittima. Nell’aspro paesaggio montanaro, dove gli elementi regnano incontrastati senza curarsi degli uomini, la violenza e l’incesto sembrano quasi una naturale conseguenza dell’isolamento e di una vita fatta di fatica e di angoscia.
Abbrutiti dalla solitudine e dalla miseria, i tre personaggi principali appaiono in qualche modo “men che umani”, quando paragonati agli abitanti del paese. Barbe Zef, che descrive lo stupro ai danni della cognata prima e della nipote poi come qualcosa che semplicemente succede quando si beve troppo. Mariute, che subisce passivamente il proprio destino, e in cui vediamo spegnersi precocemente la scintilla della gioventù. Rosute, bambina selvaggia cresciuta tra i boschi, che le suore dell’ospedale tentano invano di addomesticare.
La sola via d’uscita per Mariute è il sentimento, ricambiato, per il giovane Pieri, partito per l’America con la promessa di tornare ricco entro quattro anni. La prospettiva di un matrimonio che, tuttavia, non appare mai come un concreto progetto di vita, ma piuttosto come una fantasia consolatoria di cui la violenza dello zio la priva definitivamente. La perdita della verginità rappresenza anche la perdita dell’ultima speranza per la giovane, che compostamente dichiara <<Io sono già morta>>.
La violenza intuita
Il film non indulge mai nella rappresentazione della violenza, né nel caso dell’abuso sessuale né in quello dell’omicidio di Barbe Zef. Non vi è voyuerismo né morbosità in Maria Zef. La narrazione della parabola discendente della miseria umana è affidata interamente ai discorsi tra i protagonisti e alle curate espressioni facciali degli attori. Se non c’è pietà per Mariute e per il suo piccolo corteo d’infelici, non ve n’è neanche per lo spettatore, costretto a sforzarsi per carpire appieno il significato dei dialoghi ed immaginare ciò che non si vede.
Fattori, questi, che rendono Maria Zef un film impegnativo da seguire e da “digerire” dopo la visione. E che tuttavia non devono scoraggiare l’appassionato cinefilo, che si troverà di fronte ad un piccolo gioiello dimenticato, e per questo ancora più prezioso.