Intervista al musicista lombardo Mattia Airoldi, un interessante incontro tra folk e indie music

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Nel panorama musicale odierno risulta molto difficile emergere se non si è disposti a scendere a patti con la realtà dei talent oppure con il triste destino dell’artista usa e getta, nonostante questo scavando nel più che fertile terreno della musica underground è possibile scoprire contenuti di notevole qualità e personalità decisamente degne di nota. Il caso di Mattia Airoldi, giovane musicista proveniente da Cassano d’Adda (MI), è emblematico: fortissima passione per la musica fin dalla giovane età, gavetta lunga ed emozionante con le prime band, incessante attività live (almeno fino a che il Covid19 non si mettesse in mezzo a rovinare anche questo meraviglioso lato dell’aggregazione umana) nonché inguaribile curiosità verso il vasto mondo delle sette note fanno di questo cantante/chitarrista una figura di gustosissimo interesse (segnaliamo le sue canzoni su Spotify, piccoli gioielli in lingua inglese da assaporare lentamente).

L’intervista che segue è stata realizzata nel modo più desueto possibile, ovvero una serie di botta e risposta su Whatsapp resasi necessaria per via dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo; tutto ciò non ha comunque scalfito la magia dell’incontro che un’intervista genera e speriamo che possa rendere giusto merito al lavoro di Mattia.

Ciao Tia, innanzitutto complimenti per i tuoi brani che ho ascoltato di recente su Spotify e che ho trovato molto godibili e inclini a sonorità oggi piuttosto rare. Come nasce il tuo rapporto con la musica?

Spesso mi sono domandato quale fosse il mio primo ricordo musicale, la prima memoria sonora. Il vagare del pensiero fa riemerge un ascolto (avrò avuto tre o quattro anni) caldo e confortante: si tratta di “White Christmas” nella versione classica di Bing Crosby. Stessa età, e probabilmente stesso periodo dell’anno – le vacanze natalizie – nella reminiscenza di un girotondo sfrenato con mia sorella sullo spumeggiante inciso musicale di legni e ottoni del “Don Raffaè” di Fabrizio De Andrè. La musica che riaffiora nelle due accezioni energetiche: quella accogliente, materna e calmante e quella eccitante, attivante. A fare da sponda ai ricordi, una serie significativa di presenze: quella costante, in casa, della chitarra di papà, immancabile strumento di compagnia e per la compagnia; la musica presente sempre come un fatto sociale, anche quando, durante l’adolescenza, viene vissuta e creata nella propria cameretta, isolata come un bene prezioso da non contaminare. E ancora, proprio in questo periodo cruciale , ecco arrivare la presenza degli ascolti che ti definiscono: per me, come per tanti, i dischi passati dagli amici.  Musica fuori dal contesto mainstream: la scena del cantautorato folk americano contemporaneo (Bright Eyes, Sufjan Stevens, Devendra Bahart), l’alt-rock inglese (Blur, Radiohead e ancora prima gli Smiths, di cui ho vivido il ricordo di “Good times for a change” in uno spot della Tuborg), il punk-rock e le sue divagazioni underground, il noise, l’alternative rock americano, i grandi classici del passato scoperti per la prima volta (Johnny Cash).

Anche di Cash ho un ricordo -che diventa presenza- di uno spot pubblicitario della Levi’s: il brano è “Ring of Fire”, che inserito nell’immaginario cow-boy del commercial, restituisce immediatamente un senso di apertura, di grandi spazi, di libertà.

Ecco, il rapporto con la musica, per me, è spesso andato di pari passo con l’immagine, in un connubio che è un enorme veicolo di musicalità: i film consumati (dai cartoni animati, tra cui, su tutti, Fantasia Disney, dagli Indiana Jones alle saghe di Guerre Stellari e Ritorno al Futuro, ma anche Mission, Giù la Testa, Il Gladiatore, Gattaca etc.) senza contare i videogiochi con le splendide colonne sonore immersive ( in primis il catalogo Sierra Games con i soundtrack di Keith Zizza). E poi, la cosa più importante: tutte le esperienze vissute nel suonare insieme ad altre persone: le canzoni, le band, i concerti, i tour. Le infinite ore nelle sale prove, in macchina e in furgone, dove conosci a fondo una persona senza neanche mai parlare, negli studi di registrazione, nei bar a elaborare idee, in casa a chiudere le confezioni dei nuovi dischi appena arrivati. Sui palchi, con tutte le emozioni del mondo. Ricordi, presenze e rapporti sono tutto ciò che ha formato ( e continua a formare) il mio essere musicale.

Wow, meravigliosa risposta, mi trovi d’accordo soprattutto sul tema del contatto e della condivisione. Quanto, secondo te, il rapporto con l’altro può arricchire il proprio bagaglio interiore e favorire il processo creativo?

Ognuno per l’altro può essere un porto, dove ormeggiare e commerciare delle varietà più disparate di beni interiori. E’ in effetti la chiusura verso gli altri un grosso ostacolo alla libera e vitale crescita personale di ciascuno. Inoltre, noi siamo per gli altri e gli altri sono per noi anche un trasporto, un mezzo per arrivare a nuove conoscenze. Un amico che ci fa conoscere un libro, un film o una canzone ci omaggia di un regalo enorme. Questo nella musica è particolarmente evidente nelle improvvisazioni e nelle sessioni di musica d’insieme, quando lo scambio interpersonale può raggiungere delle vette e delle profondità davvero straordinarie. Se un popolo alieno ci venisse a trovare sul nostro bel pianeta, credo che dovremmo ricercare nei parametri musicali la chiave di una comunicazione condivisa.

A proposito di condivisione, per motivi non dettati dalla nostra volontà oggi siamo costretti a passare buona parte del nostro tempo (se non tutto) chiusi in casa e la musica, oltre a essere una valida compagna, può diventare anche un meraviglioso modo per connettersi a distanza. Stai riscontrando questa potenza in questo periodo?

Anni fa, tenendo dei corsi di musica in un’associazione culturale, ho avuto il piacere di conoscere il signor Mario che, a 78 anni, aveva deciso di imbracciare la chitarra per la prima volta in vita sua. Questo desiderio, mi diceva, gli era nato dentro dopo che, in una sagra, l’estate precedente, aveva assistito all’esibizione di Bobby Solo e ne era rimasto folgorato. Così iniziammo a fare musica insieme, prevalentemente il repertorio di Celentano, di cui Mario si considerava (e a ragione) un validissimo imitatore. Dopo qualche settimana, in una chiacchierata all’inizio della lezione, Mario, un pò più pensieroso del solito, mi confida di aver rimuginato su un fatto: lui, che è ha lavorato 40 anni in azienda e da almeno 60 lavora la terra dell’orto, nonostante la memoria che non è più quella di un tempo, la vista che non è quella di un falco, l’artrosi alle mani che insomma, per suonare la chitarra, è un bel inghippo, beh tutto sommato lui la chitarra la vuole proprio imparare perché “Mattia”- mi dice – “la chitarra è uno strumento, cioè uno strumento di comunicazione, e quando la mia Miè non ci sarà più, e i miei amici del bar anche, io resterò da solo…ma se ho un mezzo di comunicazione, uno strumento! Capisci? Io non sarò proprio solo…”. In quel momento realizzai che Mario aveva capito tutto e io invece avevo ancora tanto da imparare. Fare musica, vicini, distanti e persino da soli è sempre una condivisione, un pensiero dedicato all’altro.  Ed è esattamente questa l’attitudine, specialmente in queste giornate di pandemia, che vorrei custodire e diffondere.

Parliamo un po’ della tua musica, personalmente ti seguo dai tempi degli Alwaysout e ho sempre molto apprezzato il tuo modo di scrivere, come nasce una canzone per te? È un puro atto di folgorante ispirazione oppure è una pratica artigianale da coltivare quotidianamente affinché dia i suoi frutti?

Vorrei citarti una definizione di songwriting di Josh T. Pearson, cantautore neo folk texano con cui ho suonato nella data milanese della passata stagione: “It’s not rocket science. They’re just songs. You write them until they’re finished.” Mi ritrovo molto in questa sua visione. Traslitterata: scrivere canzoni non è una scienza perfetta -sempre ammesso che ne esista una- come quella della NASA per mandare i razzi su Marte; sono canzoni e non termini mai di scriverle finché non finiscono. Io ritengo che lo slancio iniziale di qualsiasi melodia venga come “preso al volo” chissà da dove.  Poi però c’è una artigianalità, una cura di cui il brano abbisogna; è come fare crescere un cucciolo, cerchi di dargli tutto il meglio di te per farlo stare in piedi poi una volta che sa come camminare non sai mai che strade potrà prendere. L’esempio più adatto è rappresentato dalla musica popolare: quando una melodia o una canzone è generalmente riconosciuta ma se ne dimentica l’autore, ha espresso il suo vero potenziale: diventa per tutti e di tutti. Penso a “You Are My Sunshine”.

La tua ultima canzone è stata scelta come colonna sonora per lo spot pubblicitario del portale “Immobiliare.it”. Oltre a porgerti i miei personali complimenti, potrei chiederti come è nata questa collaborazione?

Ti ringrazio Marco. Il brano è stato creato dal compositore Fabrizio Campanelli, un assoluto professionista dal gusto artistico estremamente emozionante e coinvolgente. Io ne ho interpretata la melodia con l’apporto di Enrico Meloni alle chitarre. Un vero lavoro di team in studio. L’embrione della canzone nasce 4/5 anni fa mentre eravamo al lavoro nel Candle Studio di Milano ma ha avuto un’inedita fortuna di recente venendo scelta da Immobiliare.it per la sua campagna televisiva. “Isn’t It Fine” è una canzone solare che credo riesca a portare in chi l’ascolta una dimensione di apertura e freschezza che, specialmente in questo periodo, pare essere per alcune persone qualcosa di positivo.

Ringraziamo di cuore Mattia per la sua disponibilità in questo incontro “a distanza” e gli facciamo i nostri migliori auguri per il proseguimento della sua attività artistica.

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