Ho incontrato Daniele Chiaramida mentre cantava in strada un brano di De André, accompagnandosi con la sua chitarra acustica. Una scelta peculiare, che mi ha immediatamente incuriosita. Così quando, qualche tempo dopo, ho avuto l’opportunità di intervistarlo, è stata questa la prima cosa di cui gli ho parlato.
Perché la strada?
Ho cominciato a Bologna, durante il periodo dell’università. Inizialmente, suonare in strada ha rappresentato per me una valvola di sfogo, era quasi una necessità.
In questo, ho preso ispirazione da Spring Groove, una cantautrice americana che al tempo si trovava lì a Bologna. Anche lei suonava in strada, e lo faceva con una tale professionalità che la gente si fermava a guardarla, affascinata. Era davvero fantastica.
In strada, però, devi misurarti con il pubblico più eterogeneo possibile. Cosa comporta, questo, dal punto di vista emotivo?
È la parola “pubblico” a non essere appropriata, in questo contesto.
Naturalmente, c’è un muro d’imbarazzo da rompere, ed un certo timore del giudizio. E con questo non mi riferisco soltanto al giudizio degli altri nei tuoi confronti, ma anche ad un tuo pregiudizio verso gli altri. In strada ti senti vulnerabile ed automaticamente rischi di irrigidirti. Se provi ad osservare gli artisti di strada, musicisti e non, noterai che molti sono rigidi, costantemente sulla difensiva.
Per quanto riguarda i guadagni, banalmente i soldi in strada arrivano se sei bravo, se hai un modo di fare accattivante, ma soprattutto se sei di buonumore. Se il tuo umore è cattivo, la gente lo sente a pelle. Se invece sei allegro, trasmetterai sensazioni positive, e gli altri si avvicineranno.
Leggendo la “bio” sulla tua pagina Facebook ufficiale…
...ho visto che ti sei autodefinito “cantautore”. Mi è subito venuta in mente la storica dichiarazione di Fabrizio De André: <<Fino a diciott’anni, tutti scrivono versi. Quelli che perseverano dopo l’adolescenza, o sono veri poeti, o sono dei cretini. Io non mi reputo né l’uno né l’altro, perciò mi definisco cantautore>>. Qual è invece il tuo rapporto con questa “etichetta”?
Non ho scritto io quella bio! –risponde Daniele ridendo- De André possedeva una consapevolezza che io non ho. Anche prima di diventare De André, fin da ragazzo, sapeva chi era. Io preferisco definirmi un interprete.
Interprete, certo.
Ma hai anche scritto diversi brani tuoi. Ce n’è qualcuno di cui sei particolarmente fiero?
Sicilie, sicuramente. E anche Turi. Ne vado fiero non tanto per averle scritte, quanto per come reagiscono le persone quando le ascoltano.
Le due canzoni che hai citato sono scritte in dialetto catanese, così come altri tuoi pezzi. Qual è il tuo rapporto col dialetto, e con la tua terra in generale?
Per anni ho vissuto a Bologna prima, e a Roma poi. Catania, l’ho scoperta quando sono tornato. Prima, da ragazzo, frequentavo solo casa e scuola, non vivevo a fondo la città.
Ed è stata una bella scoperta?
Sì! Dopo un periodo poco felice a Roma, Catania ha rappresentato una rinascita.
Per quanto riguarda il dialetto, invece, è una lingua che amo e che mi appartiene. Mi piace scrivere in dialetto, perché lo sento mio.
Come nascono le tue canzoni?
Tutte le mie canzoni sono nate in momenti emotivamente impegnativi. Periodi di forte stress, o di profonda solitudine. Penso tuttavia che, per creare, sia necessario essere fondamentalmente sani, liberi da nevrosi, narcisismi, egocentrismo. La sanezza è la base della creazione.
Come interprete, invece, il tuo repertorio attinge all’opera di grandi artisti del passato. Quali sono i tuoi preferiti?
Bob Dylan, De André, De Gregori. Mi piace anche il blues, e il rap italiano di qualità, come quello di Caparezza.
C’è qualcuno, invece, che prendi a modello per scrivere i tuoi pezzi?
Stilisticamente, Giovanni Truppi. È un cantautore napoletano che sta portando avanti, secondo me, il lavoro cominciato da De André a suo tempo: condurre un passo avanti l’estetica del cantautorato. Gli artisti come lui, che fanno davvero la differenza, sono rari. Sfondano un muro. E ci sono solo tre modi in cui puoi approcciarti a loro: con invidia, con indifferenza, oppure rendendoli un’ispirazione. Io li ho tentati un po’ tutti e tre.
Quanto è difficile essere un artista al giorno d’oggi?
È davvero una scelta così “infausta” come si potrebbe pensare?
Sarò banale: è possibile vivere di arte, se ci credi. E se abbandoni i luoghi comuni sul mondo dell’arte e, nel mio caso, della musica. Vivere di musica non significa necessariamente cantare su di un palco: qualcuno potrebbe scoprirsi fonico, qualcun altro insegnante. Anche quelle sono forme d’arte.
Io non ho un’idea romantica della musica, e non ti dirò che “la musica è la mia vita”. È al centro della mia vita, nella misura in cui il lavoro è al centro della vita delle persone. La musica capita.
Che progetti hai per il tuo futuro, e per il futuro della tua musica?
Creare un mio progetto professionale duraturo, che mi renda più sereno non solo dal punto di vista economico, ma anche psicologico. Non escludo la possibilità di avvalermi di un mezzo come YouTube, che penso sia un’ottima piattaforma per farsi conoscere e per costruire qualcosa di valido.
Intervista interessante, e risposte schiette, non di comodo. Grazie 🙂