Il primo disco omonimo degli Iron Maiden compie quarant’anni

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L’inizio non si dimentica mai

I primi capitoli di una storia sono sempre particolari, hanno quel sapore di ignoto, di inconsapevolezza, di entusiasmo e voglia di mostrare al mondo la propria esistenza che nel proseguimento del cammino purtroppo un po’ si tende a perdere. In parte questa cosa vale anche per la band inglese Iron Maiden, la quale festeggia oggi i quarant’anni dalla pubblicazione del proprio primo album omonimo. Se nel loro caso l’entusiasmo dei primi giorni non si è perso per nulla (chi scrive ha avuto occasione di vederli live a Milano nel luglio del 2018 e può testimoniare di quanto la band sia ancora in enorme stato di carica e voglia di rappresentare la New Wave Of British Heavy Metal in giro per il mondo), qualche caratteristica di questo primo LP si è un po’ persa ma in favore di quel muro di suono di stampo prettamente europeo al quale gli allora cinque musicisti britannici (oggi sei in formazione) hanno poi proseguito la propria encomiabile carriera.

La formazione degli Iron Maiden del primo disco. Da sinistra a destra: Dave Murray, Clive Burr, Paul Di’Anno, Dennis Stratton e Steve Harris.

Tornando indietro a inizio anni ’80

Facciamo un passo indietro, siamo nel 1980: il mondo è molto diverso da quello che stiamo vivendo in questo momento storico, la musica ancora si consuma nei locali e richiede la partecipazione attiva del seguito dei fans, anni luce di distanza quindi dall’asettico distacco che caratterizza la nostra epoca fatta di artisti effimeri e consumabili tra un video su YouTube e tra i dettami fugaci della musica liquida. Il bassista e autore Steve Harris, dopo una moltitudine di formazioni cambiate, riesce a dare una prima forma stabile alla propria creatura (la “vergine di ferro” è sua opera, così come gli viene molto correttamente riconosciuto dai propri compagni di gruppo, l’attuale vocalist Bruce Dickinson per primo) con la line up che vede schierati Dave Murray (mai andatosene dai Maiden e ancora al suo posto da combattente della sei-corde dopo quarant’anni) e Dennis Stratton (presente solo nel primo album, lascerà per dare vita alla band hard rock Lionheart) alle chitarre, il frontman di matrice blues Paul Di’Anno (signor cantante, vera anima dei primi due album dei Maiden, bruciatosi troppo presto a causa di alcool e droghe, motivazione che spinse Harris a licenziarlo dopo il tour di Killers del 1981) al microfono, il già citato padre fondatore dei Maiden Steve Harris al basso e Clive Burr alla batteria, quest’ultimo sostituito dopo il tour di The Number Of The Beast del 1982 con l’attuale “Drum Man” Nicko McBrain e venuto purtroppo a mancare nel 2013 a causa della sclerosi multipla (nella tragedia questa storia dimostra la grande umanità dei Maiden, avendo la band più volte organizzato concerti di beneficienza per aiutare finanziariamente l’ex compagno nel procurarsi le dispendiose cure necessarie). 

Gli Iron Maiden in concerto.

Basta Punk, il popolo vuole Heavy Metal

Dopo essere riusciti a firmare un contratto con la EMI, in un periodo dove l’Inghilterra era sommersa dal sound punk nato alla fine del decennio precedente, la giovane band si riunisce ai Kingsways Studios di Londra tra il dicembre 1979 e il febbraio 1980 per registrare quella che sarà la prima edizione del loro primo album (oggi fruibile per lo più nella versione Remastered del 1998, con l’aggiunta della traccia Sanctuary); alla consolle del mixer troviamo Will Malone, primo tastierista dei Black Sabbath e tecnico del suono, personaggio verso il quale i Maiden avranno da ridire negli anni a venire, e ascoltando l’esito prettamente sonoro del disco non si può dare loro torto (il sound dei Maiden, sebbene presenti già tutte quelle caratteristiche che renderanno celebre la band nei decenni successivi, viene in questo album trattato con enorme superficialità, negando alla capacità strumentale del quintetto inglese quella dignità di suono che arriverà solo con il secondo LP Killers); all’onere del songwriting troviamo essenzialmente sempre Steve Harris, con sporadiche collaborazioni firmate Dave Murray e Paul di’Anno. Nonostante i problemi di suono, il disco è fulmineo e accattivante e mette sul tavolo il succulento impasto di Hard Rock, Heavy Metal ed epicità squisitamente britannica che riscontriamo ancora oggi nei lavori della band, nonostante la sostanziale differenza di voce tra Bruce Dickinson e l’allora presente Di’Anno.

Le tracce dell’album

Il disco si apre con la traccia Prowler, vero e proprio biglietto da visita per la band londinese, la quale mostra subito i propri marchi di fabbrica: chitarre massicciamente presenti, riff indelebile che non accenna a staccarsi dalla capacità uditiva dell’ascoltatore, basso funambolico che accompagna l’intera canzone con un serie di crome incessanti e batteria granitica a sorreggere il già più che solido impianto ritmico-armonico. La voce di Di’Anno, potente, ruvida, macchiata dai segni della nicotina e del Jack Daniels e carica di autentica sporcizia di matrice blues svetta sopra questo muro di suono che, come già detto, avrebbe meritato ben altra considerazione e trattamento nella sua lavorazione in studio. Alla prima fulminea traccia segue l’introspettiva Remember Tomorrow, brano calmo (nonostante il cambio di carattere a metà brano, altro trademark tipico di casa Maiden) dove per la prima volta ascoltiamo la capacità nell’arpeggiato del bassista Steve Harris, tecnica che ritroveremo in altri brani della carriera dei Maiden  quali Fear Of The Dark e The Clansman; l’atmosfera calma e a tratti cupa della seconda traccia lascia spazio al brano Running Free, usato dalla band come singolo di lancio dell’album e dove ritroviamo gli elementi che ci avevano indotto a muoverci forsennatamente in Prowler. Segue poi uno dei brani più sperimentali dell’album, The Phantom Of The Opera, dove oltre a venire a conoscenza della grande passione letteraria del gruppo inglese ne possiamo anche apprezzare tutta la maestria musicale e strumentale, con le chitarre che si raddoppiano armonicamente e melodicamente in modo magistrale (altro aspetto musicale dove i Maiden si rivelano uno dei gruppi pionieristici) e il solito Steve Harris a far galoppare la traccia con il proprio basso serrato e carico di note tanto presenti quanto eseguite in modo estremamente pulito. Tutti questi aspetti estetici li ritroviamo anche in Transylvania, brano strumentale (come ce ne saranno altri nella carriera futura del gruppo) che ci mostra un’altra volta l’immensa potenzialità del gruppo: è musica veloce, suonata come si deve da musicisti che sanno il fatto loro e non timorosa di esplorare territori allora decisamente poco popolari nel nome di una innata devozione alla causa della New Wave Of British Heavy Metal. Segue poi Strange World, altro bellissimo slow dell’album (saranno sempre meno nel corso dei futuri dischi della band ma costantemente di grande pregio) dove la band mostra anche uno squisito lirismo, con la voce di Di’Anno capace di diventare angelica abbandonando per 5:47 minuti la propria natura ruvida e grezza. Gli ultimi due brani del disco sono due autentiche bombe: Charlotte di Harlot è un brano sulla falsa riga di Prowler e Running Free che apre la saga della prostituta Charlotte, epopea continuata con il brano 22 Acacia Avenue contenuto in The Number Of The Beast del 1982, con Hooks In You di No Prayer For The Dying del 1990 e che termina con From Here To Eternity dell’album Fear Of The Dark uscito nel 1992; Iron Maiden costituisce la vera firma del gruppo, un brano veloce e martellante che tradisce volutamente gli intenti del gruppo, non a caso eseguito ancora oggi in chiusura dei concerti.

Gli Iron Maiden in concerto.

Testi già in linea con il futuro

A livello testuale c’è già tutto ciò che riscontriamo anche negli album più maturi della band (anche se considerare non maturo Iron Maiden è decisamente una forzatura): il senso di libertà di matrice eroica, l’interesse per le opere letterarie e teatrali di un certo rilievo, una considerevole dose di capacità di immaginazione e un senso di epico che pervade tutte le otto tracce del disco. Una differenza tra questo album, il successivo Killers e il resto della produzione della “vergine di ferro” londinese però è evidente: i primi due album, soprattutto grazie alle caratteristiche timbriche del primo cantante, lasciano molto spazio a stilemi hard rock e in parte blues che con l’entrata di Dickinson lasceranno definitivamente spazio al puro Heavy Metal di matrice sempre fedelmente britannica.

La copertina del primo album della band.

Se il buongiorno si vede dal mattino…

Indipendentemente da tutte le trattazioni che si possono fornire di un album come Iron Maiden, è chiaro come si tratti di un album d’esordio forte, deciso e già denso di personalità e carisma artistico, qualità sempre presenti nella band di Harris e che li porterà in quella prima stagione, toccando anche il suolo italiano, a esibirsi in tournée come gruppo spalla dei ben più noti KISS. Era solo l’inizio, ora dobbiamo solo sperare che la fine, ormai non lontanissima, non arrivi comunque troppo presto: fermo restando che la pensione è un diritto di tutti, e di certo i nostri se la sarebbero ampiamente meritata, i Maiden ci mancherebbero molto per non dire troppo.

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