Lo storico e scrittore britannico Eric John Ernest Hobsbawm aveva definito il Novecento come secolo breve. La locuzione si deve principalmente a un fatto temporaneo. Ossia, l’interposizione del secolo tra il 1914 e il 1989. Il 1914 segna la fine della Belle Époque, mentre il 1989 è notoriamente l’anno in cui cadde il muro di Berlino. Tuttavia, l’espressione “secolo breve” sta anche a indicare un periodo piuttosto corto, se pensiamo ai molteplici sconvolgimenti sociali e politici che lo hanno caratterizzato. Questo scenario si ripercuote anche in ambito artistico. E, in particolare, nella musica. Un esempio lo troviamo ne “Il testamento di Tito” di Fabrizio De André.
“Il testamento di Tito”: un brano che si rifà ai nostri giorni?
La definizione “secolo breve”, nel tempo ha assunto vari significati. Uno di questi ricalca gli ideali di quei cent’anni. Ideali di divisione sociale, di un’umanità spaccata a metà. Nella quale si combattono guerre sanguinose in nome di un futuro apparentemente più roseo. Tutte realtà che si pensava fossero state seppellite dalle macerie del muro di Berlino. Eppure, ci troviamo adesso nel 2022. E sappiamo bene che, purtroppo, non è affatto così. Il cantautore Fabrizio De André non ha mai visto l’alba del millennio in corso. Tuttavia, molti dei suoi testi rappresentano la nostra quotidianità sociale e politica. “Il testamento di Tito” non fa eccezione.
La storia
Questa canzone nasce nel 1970, con l’album “La buona novella”, ispirato ai vangeli apocrifi. Il protagonista del pezzo è Tito. Uno dei due ladroni crocifissi a fianco di Gesù Cristo. A seconda dei vangeli a cui si fa riferimento, i loro nomi cambiano. Secondo i vangeli di Luca, testi a cui si rifà la chiesa cattolica, essi sono nominati Gesta, o Gestas, e Disma. Mentre nel vangelo arabo dell’infanzia, uno dei molteplici vangeli apocrifi esistenti, i due condannati a morte si chiamano Tito e Dimaco. Come affermato in precedenza, De André predilige i vangeli apocrifi. Dunque, egli prende in considerazione Tito, ladrone che, ormai in punta di morte, pratica una profonda d’introspezione.
“Chiudi gli occhi ed immagina una gioia. Molto probabilmente penseresti a una partenza”, cantava Niccolò Fabi. In effetti, l’essere umano è più propenso a proiettarsi verso un inizio. O, al massimo, verso un divenire. Pensare alla fine costa fatica. Mette in gioco emozioni e riflessioni che incutono timore. Tutto ciò si acutizza nel momento in cui dobbiamo fare i conti con la fine per eccellenza. Vale a dire: l’epilogo della nostra esistenza. Non è semplice immedesimarsi in una mente che volge verso il tramonto. Tuttavia, nell’immaginario comune vi sono alcuni sentimenti che riecheggiano in maniera particolare. Uno di questi è il pentimento. Ciononostante, non sempre la morte riesce a risvegliarlo. “Il testamento di Tito” ne è la dimostrazione.
Analisi del testo
L’immagine del/la morituro/a che si pente e chiede perdono per i peccati commessi in vita ricorre molto di frequente nell’ideale cattolico. La religione cristiana propaga l’idea che chiudere gli occhi per sempre significhi andare incontro alla vita eterna. La quale può seguire tre diverse strade: il paradiso, il purgatorio, oppure l’inferno. Ed è proprio l’idea di finire tra le fiamme di quest’ultimo, a far scaturire il pentimento prima di morire. Tuttavia, per comprendere questo passo, dobbiamo prima esaminare un altro termine: peccato. Secondo il cattolicesimo, peccare significa venire meno alla parola di Dio. Dunque, non rispettare i suoi comandamenti. Esattamente da quest’ultimi si sviluppa l’intero testamento di Tito. Tito, sulla croce, ripensa alla sua esistenza. E lo fa rifacendosi alla morale cristiana. Più precisamente, ai dieci comandamenti. Donando una visione decisamente approfondita del loro significato.
La prima parte de “Il testamento di Tito”: un solo nome, troppi pretesti
“Non avrai altro Dio all’infuori di me
Spesso mi ha fatto pensare
Genti diverse venute dall’est
Dicevan che in fondo era uguale
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male”
Secondo la Bibbia, i dieci comandamenti, altresì conosciuti come “decalogo” vennero donati da Dio a Mosè sul monte Sinai. “Il testamento di Tito” comincia citando il primo, ossia “Non avrai altro Dio all’infuori di me”. Il messaggio è chiaro. Il cattolicesimo riconosce come valida una sola figura divina. Dunque, viene ripudiata qualsiasi altra forma di divinità. Eppure, Faber, impersonato da Tito, riflette. S’interroga sull’importanza di questo punto. In fin dei conti, è così fondamentale evidenziare l’esistenza di un unico Dio? Sottolinearne la superiorità? E, soprattutto, usare il suo nome come pretesto per agire violenza sui popoli?
Il dolore taciuto
“Non nominare il nome di Dio
Non nominarlo invano
Con un coltello piantato nel fianco
Gridai la mia pena e il suo nome
Ma forse era stanco, forse troppo occupato
E non ascoltò il mio dolore
Ma forse era stanco, forse troppo lontano
Davvero lo nominai invano”
“Il testamento di Tito” procede col secondo comandamento. “Non nominare il nome di Dio invano”. Il culto cattolico considera quella dell’Altissimo una figura talmente superiore, da non dover essere nominata se non in maniera solenne. Quindi, attraverso la preghiera. Tuttavia, se il divino può considerarsi padre dell’umanità, ne consegue il fatto che le sue figlie e i suoi figli lo invochino nel momento del bisogno. Solo che, non sempre ci si sente ascoltatə. E la mancanza d’ascolto genera solitudine. La stessa solitudine che, secondo le sacre scritture, mai tedierà l’individuo credente e devoto.
Tra sangue e amore
“Onora il padre, onora la madre
E onora anche il loro bastone
Bacia la mano che ruppe il tuo naso
Perché le chiedevi un boccone
Quando a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Quanto a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore”
Arriviamo al terzo comandamento. “Onora il padre e la madre”. Accade spesso che i genitori impartiscano alle proprie figlie e ai propri figli l’educazione al rispetto selettivo. S’insegna loro a rispettare le persone in base al ruolo che queste ricoprono nelle loro vite. Raramente si educa al riguardo incondizionato per ogni essere vivente. E, soprattutto, solo sporadicamente s’abituano le/i bambinə a percepire il rispetto verso se stessə. A come realmente ci si sente quando si viene rispettatə. Le/li si sprona ad attuare gesti d’affetto verso le persone, solo per non venire additatə come genitori maleducati. Senza pensare che imparare a cogliere l’amore e il rispetto può invece rivelarsi un’ancora di salvezza già dalla prima infanzia.
Questo meccanismo si attua anche nel rapporto tra genitori e figlie/i. “Il testamento di Tito”, in questa fase del brano, ribadisce un concetto fondamentale: coloro che ci mettono al mondo, sono, prima di tutto, esseri umani. E, in quanto tali, sbagliano. Commettono errori più o meno gravi. I quali, inevitabilmente, vanno a ripercuotersi sulla prole. Alla luce di ciò, Tito si pone una domanda: è giusto perdonare un’ingiustizia o una violenza subita, solo perché avvenuta per mano di un genitore? Diventare madri o padri può rivelarsi un valore aggiunto alla nostra esistenza. Tuttavia, non ci rende esenti dal ferire il prossimo. Né dal subirne le conseguenze.
Il testamento di Tito evidenzia il materialismo umano
“Ricorda di santificare le feste
Facile per noi ladroni
Entrare nei templi che rigurgitan salmi
Di schiavi e dei loro padroni
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali”
“Ricorda di santificare le feste”, recita il quarto dei comandamenti. In questo passaggio, Tito ricorda la società della società nella quale è immerso. E, con lui, lo fa De André. Quante volte ci è capitato di celebrare festività religiose, senza però comprenderne il significato? Ancora al giorno d’oggi, spesso il desiderio d’apparire sovrasta la nostra essenza. Capire il valore di un concetto non è semplicemente sinonimo di conoscerne l’identità. Piuttosto, vale a dire percepirne l’importanza. E, se noi esseri umani fossimo più propensi alla comprensione, daremmo molto più peso ad agire con bontà e gentilezza, piuttosto che a fare le corse dell’ultimo minuto per accaparrarsi i regali di Natale più convenienti.
Due pesi e due misure
“Il quinto dice non devi rubare
E forse io l’ho rispettato
Vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
Di quelli che avevan rubato
Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio
Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio”
“Il testamento di Tito” giunge al quinto comandamento, ossia “non rubare”. Fin dall’infanzia, ci viene insegnato che appropriarsi degli oggetti altrui è un’azione sbagliata. E, per quanto in linea di massima sia così, spesso tendiamo a non vedere una parte di realtà. Il mondo è tutt’altro che paritario. Talvolta il divario tra classi abbienti e ceti più miseri è particolarmente vasto. Esistono persone che a stento trovano gli strumenti necessari per sopravvivere. Vien da sé che, dunque, per certi individui, rubare divenga una necessità. Eppure, la stessa classe più agiata tende a celare codesta realtà. Sotterrando i furti commessi di mano propria con quelli agiti per sopravvivenza.
Una vita non pensata
“Non commettere atti che non siano puri
Cioè non disperdere il seme
Feconda una donna ogni volta che l’ami
Così sarai uomo di fede
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
E tanti ne uccide la fame
Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore
Ma non ho creato dolore”
“Non commettere atti impuri”, è scritto nel sesto comandamento. Qui arriviamo a una tematica quanto mai attuale, soprattutto in Italia. Ancora oggi, la chiesa cattolica s’arroga il diritto di decidere del corpo altrui. A maggior ragione, di quello delle donne. Social come Instagram e TikTok continuano a non bannare video di sacerdoti che promuovono una sessualità priva di contraccezione. Non pensando minimamente alle possibili conseguenze di questi messaggi. “Il testamento di Tito” sottolinea ancora una volta l’ipocrisia della retorica cristiana. Vale a dire il propugnare la sacralità della vita, senza però avere riguardo dell’esistenza nella sua interezza.
La negazione dell’evidenza
“Il settimo dice non ammazzare
Se del cielo vuoi essere degno
Guardatela oggi, questa legge di Dio
Tre volte inchiodata nel legno
Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno
Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno”
Il settimo dei comandamenti impone di “non ammazzare”. Non a caso, come affermato nel paragrafo precedente, il cattolicesimo considera la vita come sacra. Talmente sacra che solo Dio può decidere quando porle fine. Tuttavia, osserviamo la realtà dei fatti. A compiere questa riflessione è proprio un uomo condannato a morte dagli stessi cattolici. E che, insieme a lui, hanno sentenziato altre due persone. Uno dei quali verrà poi considerato il figlio dell’Altissimo.
“Il testamento di Tito” evidenzia l’ipocrisia della sincerità mascherata
“Non dire falsa testimonianza
E aiutali a uccidere un uomo
Lo sanno a memoria il diritto divino
E scordano sempre il perdono
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore”
“Non dire falsa testimonianza” recita l’ottavo comandamento. In genere, i genitori insegnano alle/ai propri/i figli/e a essere sempre onesti e sinceri. E, per quanto la sincerità sia di solito la via migliore da percorrere, anche in questo caso si tende a celare un fetta di realtà. Talvolta, mentire non è un atto di cattiveria nei confronti altrui. Accade di dire menzogne per necessità, per sopravvivenza. Al fine di difendere la propria esistenza o quella di qualcun altrə. Ciononostante, raramente si tiene conto di queste eccezioni. Si giudica, invece, l’azione, senza prima analizzare il contesto nella quale essa è immersa.
Un accostamento autoesplicativo
“Non desiderare la roba degli altri
Non desiderarne la sposa
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
Che hanno una donna e qualcosa
Nei letti degli altri già caldi d’amore
Non ho provato dolore
L’invidia di ieri non è già finita
Stasera vi invidio la vita”
Il nono e il decimo comandamento vengono solitamente recitati tutti d’un fiato. Come se fossero un unico precetto. “Non desiderare le cose degli altri”, “non desiderare la donna degli altri”. Quest’accostamento dà la percezione che, in entrambi i casi, si abbia a che fare con degli oggetti inanimati. La donna è messa sullo stesso livello di un qualcosa, e non di un qualcuno. Da notare inoltre il fatto che non viene citato un corrispettivo maschile. Non esiste un comandamento che impone di “non desiderare l’uomo altrui”. Questo perché la figura femminile, in questo caso, non viene considerata come una persona capace d’intendere e di volere. Di provare sentimenti e pulsioni.
Tuttavia, vi è un ulteriore punto da prendere in considerazione. Il testo parla chiaro. Esso condanna l’invidia. Non si mette in discussione un’azione, bensì una sensazione. Come se l’essere umano fosse responsabile di quello che prova, e non del modo in cui agisce. Tant’è che Tito, ormai in procinto di chiudere gli occhi per sempre, fa una precisazione. Egli confessa di continuare a provare invidia. L’uomo sente il peso del tempo di albe e tramonti che lui non ammirerà. E invidia coloro che, arrogandosi il diritto di porre fine alla sua esistenza, continueranno a vivere la propria.
Un momento prima della fine
“Ma adesso che viene la sera ed il buio
Mi toglie il dolore dagli occhi
E scivola il sole al di là delle dune
A violentare altre notti
Io nel vedere quest’uomo che muore
Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre, ho imparato l’amore”
“Il testamento di Tito” volge al suo termine. E, insieme alla sua fine, arriva il buio. Il buio della sera, che annuncerà poi quello della morte del protagonista. In questa parte del brano s’evincono sentimenti di struggimento e ingiustizia. Tito osserva il suo corpo morente sulla croce. Percepisce la violenza del suo epilogo. Di quegli istanti che continueranno a scorrere anche in sua assenza. Il sole “violenta” le notti. Come se il suo sorgere fosse un affronto. Eppure, in mezzo a tutto questo dolore, approda l’amore. Quell’amore che, solo il lasciarsi andare all’inesorabilità del fluire dei giorni può donare. A vincere, dunque, non è il pentimento. Anche nelle tenebre della morte, trionfa la vita. La vita di un uomo consapevole delle sue azioni e del suo sentire. E la quale essenza prosegue nella stessa direzione che ha mantenuto sulla Terra. Malgrado il mistero della morte.
“Il testamento di Tito”: riflessioni finali
Faber non dipinge Tito né come un uomo giusto, né come un uomo sbagliato. Egli, al contrario, si concentra sul concetto di coerenza. Il protagonista, sebbene stia per morire, non cede alla paura. Egli non si pente dei peccati commessi in vita, solo per il timore di non essere accolto in un ipotetico regno dei cieli. Piuttosto, Tito si concentra sull’esistenza, che è l’unica realtà concreta che conosce. Attraverso una profonda analisi dei suoi giorni, arriva a una conclusione. Nonostante i sentimenti e le sensazioni contrastanti, egli decide di rimanere se stesso. Di non rimpiangere ciò che stato, anche se non conosce quel che sarà.
Si vede come un uomo sentenziato ingiustamente, che non ha potere decisionale sul progredire la sua esistenza. In tutto questo, però, egli può comunque scegliere. E sceglie di rimanere se stesso. Di assumersi oneri e onori di una vita ormai consumata, nel bene e nel male. Si chiede se la sua morte, in qualche modo, servirà a qualcosa. Non trova una risposta. Nemmeno noi ascoltatrici e ascoltatori del brano possiamo trovarla. Quel che sappiamo è che il suo insegnamento non è stato vano. E che, ancora oggi, “Il testamento di Tito” funge da luce nel buio di quest’epoca.