Una carriera che percorre pop, rock, country, elettronica e psichedelica: è quella di Miley Cyrus, che il 23 novembre compie 28 anni. Ma di tutti i suoi album, quali sono quelli che vale la pena ricordare? E quali invece meritano (e hanno ottenuto) l’oblio collettivo?
Com’è arrivata qui Miley Cyrus?
Il 27 novembre Miley Cyrus tornerà sulla scena con Plastic Hearts, il suo grande ritorno dal sapore vintage e glam. Il 23 novembre si tiene un’altra ricorrenza a casa Cyrus: il compleanno di Miley stessa, che inizia a guardare al mondo dall’alto di ben ventotto anni. Una ragazza la cui carriera si può definire con mille aggettivi, che vanno da travagliata ad agghiacciante, passando per indimenticabile perché non poteva davvero mancare. In molti sono ancora affezionati alle radici della ragazza, e con l’avvento di Disney+ hanno riscoperto Hannah Montana, la sit com che l’ha resa famosa. La musica è venuta proprio con essa, in una carriera ormai più che decennale.
In onore di Miley Cyrus, per il suo ventottesimo compleanno ripercorreremo i suoi album e la sua carriera, dal peggiore al migliore (posizione contesa dall’incombente Plastic Hearts). Non verranno considerati gli album venduti come Hannah Montana, né gli EP.
Younger Now (2017)
Basta una parola per descrivere il dimenticabile “ritorno alle origini” di Miley Cyrus: codardo. Younger Now è un tentativo della ragazza di “ripulire” la sua immagine dopo anni di twerking e feste folli. Tentativo che serve solamente a farla precipitare (momentaneamente, per fortuna) nella mediocrità e nell’anonimato dopo essere stata in cima al mondo praticamente dall’inizio. Un criminale spreco di Dolly Parton e una completa mancanza di dimestichezza nel genere con cui dovrebbe essere cresciuta completano la caduta libera dell’album. Nient’altro che una macchia (di olio per motore) su una carriera altrimenti fatta di positivi.
Meet Miley Cyrus (2007)
Un album da Disney Channel, nulla di meno né di più. Si notano ancora le asprezze vocali di una Miley ancora alle prime armi, e la mancanza di impronta personale. È possibile trovare idee molto simili anche nei primi album di Demi Lovato, quelli invecchiati peggio e che possiedono ormai solo i Lovatics scafati. Ma in quel progetto fuori dal suo controllo la Cyrus si muove leggera e senza inciampi. Si capiva che c’era qualcosa di più nella giovane Hannah Montana, una scintilla in arrivo. Un potenziale che andava coltivato e liberato da chitarre pop-rock né carne né pesce e canzonette sui compagni di scuola. Notevole la presenza dell’indimenticabile See You Again, di fatto la prima vera “hit” della Cyrus e la prima traccia che si fa davvero notare. Una premessa solida per il successo in arrivo.
Breakout (2008)
Una sorta di ponte di passaggio tra Disney Channel e la carriera pop completa. Ritorna See You Again, rimaneggiata con classe dai Rock Mafia nella hit che tutti ricordano. Si comincia a sentire l’anima retro che Miley Cyrus avrebbe poi messo a nudo per Plastic Heart, con una cover rock di Girls Just Wanna Have Fun. Si sente un’anima più “selvaggia” e graffiante con Fly On The Wall, si sente il desiderio di ribellione e libertà con Breakout. E nonostante il sound “alla Disney Channel” continui a far sporgere la sua brutta testa sul sound d’assieme, Breakout è il primo lavoro davvero coeso della carriera della Cyrus. E pur vedendola così giovane, ha comunque più impatto di Younger Now.
Can’t Be Tamed (2010)
Solo Who Owns My Heart e la title track bastano a portare questo album nella top 3. Il primo lavoro da “matura” della Cyrus venne ridotto ai tempi a una semplice svolta sexy come tante, ma c’è molto altro dietro le borchie e lo sguardo arrabbiato. C’è una vera e propria popstar in boccio, che sorretta dalle sante mani dei Rock Mafia si produce in una traccia pop esplosiva dietro l’altra e proclama la sua voglia di libertà con una presenza, finalmente, capace di rendere l’idea. Oggi tende a sparire dietro il tornado dei suoi ultimi progetti ed exploits, ma tornare ad ascoltarlo anche dopo dieci anni fa sempre piacere.
Miley Cyrus & Her Dead Petz (2015)
Bistrattato e fatto a pezzi dalla critica al momento del rilascio, l’esperimento psichedelico (e gratis) della Cyrus è una proclamazione di indipendenza con tutti i crismi. Un lavoro che per la prima volta permetta alla Cyrus di fare davvero come le piace. Con l’assistenza d’eccezione di Ariel Pink, Wayne Coyne e Sarah Barthel, la dama di Phantogram, dimostra di cavarsela bene dietro strati e strati di polvere bianca e fumo d’erba. Descrive mondi e situazioni a catena, uno appresso all’altro. Una pioggia di sensazioni e immagini che mostrano un vero trip anche a chi non ha mai fumato nemmeno una sigaretta. Ma se c’è qualcuno che può guidarci attraverso una tale nebbia è proprio lei.
Bangerz (2013)
L’album del grande inizio, degli scandali, delle performance iconiche. Allontanato dallo status di eccellenza dalla pessima We Can’t Stop, la traccia da discoteca forse più “morta” mai registrata. Nonché neanche tanto scandalosa a riguardarla con il senno di poi. Quello che giace all’intorno è invece un ibrido pop-pop-trap che colpisce nel segno con la sua sboccata spontaneità. Dietro le linguacce e le atmosfere da festa eterna c’è una Miley placidamente arrabbiata, che col suo semplice essere sé stessa fa arrabbiare. La Miley che valorizza l’inflazionato French Montana nella dirompente FU, si scrolla il mondo dalle spalle e continua ad esplorare il mondo (delle relazioni, della società, della sessualità) a modo suo e senza pregiudizi. L’album di Miley Cyrus che – per ora – ha più possibilità di rimanere negli annali.