Volbeat – Rewind, Replay, Rebound | recensione album

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Se dovessimo comporre una ipotetica lista delle band più note ed influenti del metal moderno, i Volbeat non dovrebbero assolutamente mancare; in primis per la proposta, che volente o nolente, è assolutamente originale; quel rockabilly “elvisiano”, immesso in un frullatore assieme ad un heavy metal scanzonato, crea un connubio che non può non attrarre; ed è proprio cosi, il “Volbeat Sound” attrae fasce di ascoltatori anche molto distinti tra di loro. A prescindere dai gusti, quindi, la band di Copenaghen merita rispetto: Poulsen & Co. hanno scritto tasselli discografici dall’innegabile valenza, prima di imporsi commercialmente dopo la pubblicazione di “Outlaw Gentlemen & Shady Ladies” (2013); e questo non è assolutamente un male in quanto ben sappiamo quanto il rock duro, se cosi vogliamo chiamarlo, oggi sia un genere bistrattato. I Volbeat giungono nel 2019 con tutti gli occhi della critica addosso, con la medesima voglia degli anni passati di ospitarci in un Saloon americano degli anni 50. Tra un whiskey e una partita a poker, si erge dinanzi ai nostri occhi la nuova fatica della band, “Rewind, Replay, Rebound”.

I Volbeat

Fatte le dovute premesse, anche abbastanza positive, passiamo ad altri registri. E perché vi chiederete? Beh perché i Volbeat non hanno imparato assolutamente dal precedente disco, “Seal The Deal & Let’s Boogie”; il precedente platter, il secondo con l’ex chitarrista degli Anthrax Rob Caggiano, ha fatto storcere il naso ai fans di vecchia data. Fans che recriminarono la tendenza delle composizioni a plastificarsi su refrain fin troppo sempliciotti.

Prima di addentrarci nelle tracce, partiamo subito col dire che i Volbeat possiedono un trademark di tutto rispetto; un marchio che cerca subito di emergere nella inaugurale “Last Day On Earth”, la quale inizia con una intro rockeggiante a là Rolling Stones per poi mutare forma appena Poulsen dona il suo appeal vocale. Ma la traccia non spicca il volo, il lavoro di chitarra è assai prevedibile e in linea con le intuizioni del precedente disco. Migliore è l’approccio alla successiva “Pelvis on Fire”, una traccia boogie fin dalle sue fondamenta, costruita su una infrastruttura danzereccia che colpisce. Qui i Volbeat lasciano intravedere la loro voglia si sposare coordinate fin troppo easy listening: non è detto che sia una male, ma qui la band semplifica tutto e troppo. Si prosegue con l’apparente grinta profusa da “Rewind to Exit”, in pratica un rock leggerissimo imbottito da abbondanti sezioni corali e da una effettistica vocale fin troppo dolciastra. Insomma, niente di che. Per trovare un po’ di velocità dobbiamo annusare la seguente “Die to Live”, arricchita dalla presenza del validissimo Neil Fallon, voce dei Clutch: pianoforte e sax donano alla traccia una discreta forza, che non può non far scuotere la testa.

Se state cercando tracce di metal, queste non le troverete nemmeno nella quinta “When We Were Kids”: in questo episodio Michael Poulsen strizza l’occhio al country e alla malinconia, con una giusta verve da folk singer: questa è sicuramente una delle migliori prove vocali del cantante danese. Decisamente più arrembante è la successiva “Sorry Sack of Bones”, mentre le due tracce suguenti, “Cloud 9” e “Cheapside Soldiers” (in cui solo è suonato da Gary Holt), non ci fanno sobbalzare dalla sedia. Molto più in linea col passato dei nostri è “Maybe I Believe”, la quale si ramifica su un riff portante interessante: qui il chorus è molto più gradevole e ci porta nell’America post Seconda Guerra Mondiale, quella America vogliosa di guardare al futuro. Cosa che anche i Volbeat tentano di fare con “The Awakening of Bonnie Parker” ma più che guardare al futuro qua è tutto un accartocciarsi su se stessi: il risultato è fin troppo scontato. Le ultime tracce, soprattutto la tredicesima “The Everlasting”, regalano buoni momenti ma questi sono talmente slegati col passato dei Nostri che rimangono li, ad ammuffire in un angolo.

Questo settimo disco venderà molto, ci sono pochissimi dubbi. Dopo l’ascolto abbiamo capito che i Volbeat hanno eliminato quella fragranza heavy metal degli esordi per lasciar spazio a tante altre effusioni musicali; inoltre c’è da dire che la presenza quasi matematica di un’ospite femminile nei brani, alleggerisce tutte le strutture in maniera abbastanza evidente. Altro punto a sfavore è la presenza di una tracklist veramente lunga (ben 14 tracce); se fosse state scelto un minutaggio più breve avrebbe non solo semplificato l’ascolto, a tratti fin troppo ripetitivo, ma avrebbe permesso di valorizzare qualche song in più. C’è da dire che i Volbeat, consapevoli del circuito mediatico in cui sono immessi, hanno sfruttato al meglio le loro capacità di fruttare il loro talento. Il risultato finale è un disco godibile ma non esaltante.

6/10

L’artwork del disco

1. Last Day Under The Sun
2. Pelvis On Fire 
3. Rewind The Exit 
4. Die To Live (feat. Neil Fallon) 
5. When We Were Kids 
6. Sorry Sack of Bones 
7. Cloud 9 
8. Cheapside Sloggers 
9. Maybe I Believe 
10. Parasite 
11. Leviathan 
12. The Awakening of Bonnie Parker 
13. The Everlasting 
14. 7:24

Lineup:

Michael Poulsen (Voce, Chitarra)
Jon Larsen (Batteria)
Kaspar Boye Larsen (Basso)
Rob Caggiano (Chitarra)

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