Vina Rose è un’artista energica e carismatica, con un sound riconoscibile come lo stile di un pittore. Uno di quelli che non ha bisogno di strafare e che con poche pennellate ben assestate ti crea un capolavoro.
L’imprinting con la musica arriva molto presto, grazie ai tuoi genitori.
“Sono entrambi musicisti. Pensa che, quando mia madre era incinta, lei e mio papà facevano serate in giro. Parliamo degli anni ’80. All’epoca aprivano i concerti per gli artisti della RAI quando questi venivano in Sicilia e in Calabria. Ho anche tanti zii che da giovani cantavano e suonavano, e anche mio fratello suona e canta, oltre a fare tante altre cose. Possiamo dire che sono nata nella musica”.
Con una famiglia così alle spalle, il tuo era quasi un percorso obbligato.
“I miei non mi hanno mai forzata a intraprendere la carriera musicale, ma mi hanno sostenuta quando ho deciso di prendere quella strada. Sono stati di grande supporto e lo sono tutt’oggi, e per questo mi reputo fortunata”.
A un certo punto della tua carriera, dopo collaborazioni con artisti del calibro di Giorgia, Bocelli e Alexia e tantissime partecipazioni a programmi tv e trasmissioni radiofoniche, ti trasferisci a Londra. Perchè questa scelta?
“Volevo lasciare la mia zona di comfort, mettermi in discussione come artista e fare le mie di robe. Volevo di più. Sapevo di aver raggiunto certi livelli, ma ero anche consapevole di non poter andare più in alto. Ero cosciente che, prendendo questa strada, mi sarei scontrata con una realtà diversa, ma avevo un’esigenza artistica e creativa che spingeva in quella direzione. Volevo allargare il cerchio di cose che conoscevo e che non mi davano l’opportunità di crescere”.
E cos’hai trovato dall’altra parte del velo?
“Si è rivelata un’esperienza molto positiva. Pensa che quando nel 2019 ho esordito con il mio singolo di debutto [Breathe Again, ndr], ho fatto molto più rumore in Inghilterra che in Italia. E penso che le ragioni siano, oltre al testo in inglese, la veste sonora e il gran lavoro di ricerca del sound. Ho lavorato tanto in studio per dare ai brani una veste unica e l’accoglienza è stata delle migliori. Le recensioni sono state ottime. Purtroppo, mentre promuovevo il mio EP [Crossroads, ndr], siamo entrati in lockdown e tutto si è fermato. Avevo tante date, tanti concerti. All’epoca ero impegnata in un tour, qui in Inghilterra, ed ero strafelice di come procedevano le cose. Non che ora non lo sia. Grazie a Sweet Denial mi sto riprendendo quella fetta di pubblico che avevo un po’ perso allontanandomi dalla tv”.
A proposito di Sweet Denial, quando il brano entra nel ritornello sembra di ascoltare il pop mai dimenticato di Michael Jackson. E anche gli altri tuoi brani hanno la stessa veste sonora: moderna, elegante, delicata e al tempo stesso intensa.
“Mi fa piacere sentirlo, anche perché Michael Jackson è uno dei miei riferimenti. Con Sweet Denial si sta definendo quel sound personale di cui parlavo prima e che poi sentirai in futuro, ancor più definito all’interno dei brani ai quali sto lavorando. Sto facendo scelte molto consapevoli, che vanno a disegnare un pop più alternativo e meno scontato rispetto ai brani radiofonici che ascolti per caso e poi dimentichi. Quelle che hai ascoltato sono canzoni con significati e contenuti, che riflettono la mia anima energetica”.
Un’anima che hai messo in mostra sul palco di Una voce per San Marino. Com’è maturata la decisione di prender parte al contest e con che consapevolezza saluti la competizione?
“L’occasione mi è capitata nel periodo natalizio, l’anno scorso. Una delle organizzatrici, che avevo conosciuto a Sanremo Rock, mi manda un messaggio: ’Ti piacerebbe partecipare a Una Voce per San Marino?’ A me andava di allargare l’audience a una piazza internazionale, e poi avevo proprio voglia di cantare dal vivo, così dessi subito di sì. Ovviamente non pensavo di accedere alla finalissima, ma ci speravo. Ho dato la mia arte e mi sono sentita felice sul palco. Non ho vissuto l’ansia della competizione. È stato bello, a prescindere dal risultato. Sapevo che la vittoria sarebbe stata quasi impossibile, soprattutto dopo aver appreso della partecipazione di Achille Lauro. La sua vittoria era quasi scontata, le carte erano abbastanza scoperte. Io sono fiera del mio sesto posto, ottenuto senza supporto di management o casa discografica”.
Quella di Lauro è quindi una vittoria d’immagine più che di contenuti?
“Se fai un concorso al quale prendono parte anche artisti emergenti, o non inserisci un nome così importante o lo rendi noto sin dall’inizio. In questo modo tutti sono consapevoli e giochi ad armi pari. Anche perché poi i Big accedono direttamente alla finale, mentre noi facciamo tutta la trafila. Se parliamo di opportunità, comunque, avrei fatto come lui. Ho la possibilità di andare all’Eurovision, che faccio, non la colgo? Se parliamo di contenuti, invece, è talmente lontano da me che non posso fare un paragone. Achille Lauro è un personaggio. Fa chiacchierare, è provocatorio e ha una bella presenza sul palco. E questi meriti gli vanno riconosciuti. Capisco, quindi, che abbiano premiato l’immagine”.
Abbiamo parlato poco di Sweet Denial che, a proposito di contenuti, è un brano molto ricco. Non a caso l’hai scelto per il contest.
“Sweet Denial l’ho scritto qualche anno fa. Quando mi è capitata l’occasione del contest, poi, ho subito pensato: ‘Questo è un brano che potrebbe funzionare’. Visto quanto è energico mi sembrava adatto a una piazza come quella dell’Eurovision. Il brano parla di una dipendenza sentimentale. Descrive l’incapacità di negare una forte attrazione per una persona che non è emotivamente disponibile e che non sa vivere l’amore in maniera sana: un ‘dolce negare’ che io paragono all’infilare le mani tra le fiamme”.