Nel mondo della musica non operano solamente personaggi affermati e quotidianamente esaltati dalle cronache: numerosissimi “artigiani della musica” si rimboccano ogni giorno per riuscire a sbarcare il lunario esclusivamente con la propria arte, cercando di eludere uno Stato non proprio magnanimo con la categoria.
L’artista che andremo a intervistare è Fabio Belloni [non nascondo il legame di collaborazione lavorativa e amicizia che mi ha portato a volerlo intervistare n.d.a.], giovane musicista, didatta e fotografo che ormai da più di dieci anni sgomita nel mondo non sempre roseo delle sette note. Vista l’impossibilità di potersi incontrare fisicamente, l’intervista si è svolta interamente su Whattsup: una volta tanto siamo grati alla tecnologia mobile.
Ciao Fabio, intanto grazie per aver accettato di essere intervistato, ci conosciamo ormai da tanti anni e poterti vedere dalla prospettiva di giornalista mi stimola e incuriosisce molto.
Ciao Marco, allora premesso che per me l’intervistatore è un gran figo [ride] possiamo incominciare.
Come nasce il tuo interesse verso il mondo delle sette note?
Quando ho scoperto, tra la seconda e la terza elementare, che c’erano dei corsi di musica nel mio paese [Pontirolo Nuovo, Bergamo] ho pregato un sacco i miei genitori di iscrivermi. Per motivi legati al carattere di mio padre, scelse lui il corso, ma mi andò bene perché il pianoforte mi interessava comunque. Quindi iniziai a fare pianoforte, cambiando in totale tre insegnanti.
Quanto hai imparato dal pianoforte e quanto ti è stato utile nel tuo successivo passaggio alla chitarra e al basso, nonché alla tua attività di fonico e tecnico del suono in studio?
Nonostante sia molto difficile riassumere in poco cosa mi abbia dato il pianoforte, possiamo sintetizzare dicendo che mi ha insegnato a ragionare a parti late sia per gli arrangiamenti che per la teoria in sé. Dal punto di vista acustico, il pianoforte è uno strumento in grado di sviluppare armoniche molto più complesse di altri strumenti, in grado di sviluppare armoniche molto più complesse di altri strumenti e proprio questo mi ha spinto a capire come poter registrare/modificare nel modo migliore i suoni. Inoltre trovo che spiegare concetti teorici sia più facile con il pianoforte piuttosto che con altri strumenti.
Su quali testi ti sei formato, e per l’aspetto teorico e per l’aspetto pratico? Ce ne citeresti qualcuno?
Teoria Musicale di Luigi Rossi, il Manuale di Teoria Musicale di Mario Fulgoni, i manuali di solfeggio di Pozzoli, i solfeggi parlati e cantati di Anzaghi. Quando poi sono passato alla musica moderna ho studiato i manuali di teoria musicale della Lizard, di Massimo Varini e una valanga di ricerche personali effettuate online. Questi sono solo alcuni ovviamente. Per la pratica invece, al tempo del pianoforte, ho affrontato milioni di esercizi di Czerny e Hanon, poi lo studio delle composizioni di diverse epoche e di autori diversi (con una predilezione, al tempo, per Chopin) fino ad arrivare a preparare le sonate di Beethoven. Sul fronte chitarristico ho studiato i manuali di Troy Stetina, quelli di Varini, la serie dei Leavitt e altri mille di cui ora mi sfugge il titolo preciso.
Tutta letteratura musicale di un certo livello, non c’è che dire. Sappiamo entrambi quanto siano importanti gli ascolti per un’adeguata formazione musicale, quali sono stati quelli da te effettuati, sia dal vivo che da disco, e che ti hanno segnato e influenzato particolarmente?
Ho iniziato ad ascoltare musica molto presto perché mio padre aveva moltissimi vinili. I primi ascolti in assoluto furono “complicati” direi [ride], e infatti non riuscii a capirli nel vero senso della parola al tempo. Mi ricordo Mondi Lontanissimi di Battiato, Collage de Le Orme, Felona e Sorona sempre de Le Orme, La Buona Novella di De André, Burn e Machine Head dei Deep Purple, tutti gli album dei Pink Floyd e dei Genesis fino ad allora pubblicati. A mio padre mancavano però registrazioni di classica, di hard rock e di heavy, ho colmato dopo certe mancanze. Dal vivo invece, i concerti che più mi hanno colpito sono stati quelli di Joe Satriani, Horacio Hernandez e Mike Stern.
Hai appena citato artisti grandiosi, prima per umiltà e poi per valenza musicale. In occasione di un nostro incontro precedente mi citasti un aneddoto carino appartenente al concerto da te visto di Mike Stern, vorresti ripeterlo ai nostri lettori?
Certamente! Andai a sentirlo al Blue Note a Milano, e l’ultima cosa che mi aspettavo era di trovarlo al bar dei “comuni mortali” a bere una birra mentre, con la chitarra in braccio, ripassava certi passaggi dei brani che avrebbe eseguito da lì a poco. Io e i miei amici aravamo titubanti nell’avvicinarci, ma fu proprio lui a invitarci! E mentre pendevamo dalle sue labbra (e dalle sue mani) ci chiedeva pareri su armonie e passaggi che avrebbe potuto modificare e/o fare la stessa sera… ovviamente quando un mostro delle armonie jazz ti chiede cosa poter cambiare, tu che rispondi? [ride]
Sicuramente al tuo posto non avrei avuto parole, mi sarei limitato a dimostrargli ulteriormente la mia stima. Personalmente credo che l’umiltà oggi sia molto poco diffusa, in generale nell’umanità intera e in particolare nel contesto musicale, sei d’accordo con me o sei un po’ più ottimista?
Entrambe, nel senso che ho la fortuna di lavorare con dei colleghi, anche quelli che insegnano uno strumento diverso dal mio, dai quali io per primo posso apprendere e i quali sono a loro volta disposti a condividere le loro conoscenze senza per questo ritenersi superiori. Quindi sul lavoro l’umiltà l’ho trovata eccome. In altre situazioni, soprattutto il live, e, purtroppo, in diversi ragazzini a cui manca palesemente l’educazione, ho trovato invece una malsana voglia di paragone e confronto, quando invece nel campo artistico nessuno può mai dirsi “arrivato”. Ma posso assicurare che l’ambiente musicale è fatto d’oro rispetto a quello fotografico: lì è letteralmente un covo di vipere.
A proposito, tu sei anche valente fotografo, come sei arrivato a questa attività parallela e quanto vedi di attinente tra l’arte fotografica e quella musicale?
Per fare una citazione: «La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha». In questi termini vedo una similitudine con la musica, poiché entrambe le arti vertono sul voler veicolare un significato piuttosto che a presentare qualcosa “così com’è”. Inoltre, da un punto di vista moderno, entrambe le arti condividono il concetto (a mio parere importantissimo) che un’opera è completa solo dopo un’accurata fase di post-produzione e rifinitura. Come la stesura di un libro o la produzione di un film d’altronde. Per rispondere a come sono arrivato a questa attività: sempre grazie a mio padre, che per un periodo della sua vita è stato un convinto fotoamatore, perciò ho capito presto la “meccanica” che sta dietro alla luce. Luce e suono si comportano in modo simile, come sto cercando di spiegare nel libro che sto scrivendo.
Il giorno che verrà pubblicato ricordati che mi farebbe molto piacere scriverne una recensione. Ora un domanda spinosa: cosa pensi dell’effettiva possibilità di vivere di arte in Italia nel 2019? Tu tra attività concertistica, didattica e fotografia comunque ci stai riuscendo, e mi interesserebbe un tuo parere in merito.
Rispondo volentieri a questo perché è un discorso che, da fuori, è sempre difficile da capire. Vivere di arte in Italia è davvero difficile e obbliga l’artista ad accettare ogni sorta di ingaggio (con un giusto compenso, ovviamente), indipendentemente dal fatto che questo comporti per lui piacere o crescita personale/professionale. E spesso, per chi non è in questo campo, sembra assurdo vederci stanchi o stufi, poiché non tengono conto del fatto che un artista si possa trovare a lavorare molto più che otto ore al giorno. Esattamente come con i concerti: quanto spesso accade che non vengano considerate le centinaia di ore di preparazione necessaria? Comunque anche quando riesci a “vivere” fai fatica a investire nel tuo stesso lavoro,perché nuovi mezzi e nuove formazioni costano sempre più di quanto avanzi.
Purtroppo non mi racconti nulla di nuovo, cosa pensi si potrebbe fare per migliorare la situazione, sia da parte di noi che facciamo musica sia da parte di chi dovrebbe gestire il mercato?
Penso che almeno due interventi potrebbero cambiare molto la situazione: il primo, utopistico a livelli impossibili, sarebbe quello di avere un contributo fisso statale come avviene in certi paesi del Nord Europa (me lo raccontava un pianista), intervento che permetterebbe al musicista di potersi ritagliare del tempo per studiare. Il secondo, più fattibile, è un totale reset del mercato: interrompere completamente i servizi elargiti gratuitamente (se non per libera scelta dell’artista, in caso di volontaria beneficenza) a favore di locali, orgnizzazioni e simili; tornare a dare il giusto valore alla musica, come era in Italia negli anni 70 e 80, dove di concerti era possibile vivere. Anzi, c’è anche una terza cosa: la tutela con ferie e malattie. Troppo, eh? [ride]
Temo tu possa essere additato come il Thomas More odierno, ma hai espresso posizioni del tutto condivisibili. In chiusura vorrei chiederti in quali progetti musicali sei attualmente coinvolto e dove e quando avremo la possibilità di poterti sentire all’opera.
Attualmente sono bassista e chitarrista acustico (in funzione del repertorio) della band folk etnica F.B.A.; ho in mente molti progetti legati più alla diffusione su YouTube che ai live, come la registrazione di alcuni brani di tributo a De André, ma il tempo è tiranno! Potete sentire alcune mie idee sul mio canale YouTube.
Allegheremo senz’altro qualche link all’intervista. Ti ringrazio per il tempo dedicatomi e per la quasi ormai decennale amicizia.
Grazie a te! È stato un piacere e un onore sentirmi “un po’ più importante” per un attimo.