Rose of Nevada, recensione: il cinema che sussurra l’inquietudine alla Mostra di Venezia

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Il silenzio, la memoria, il vuoto: questi sono i temi che permeano Rose of Nevada, film presentato nella sezione Orizzonti della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 82, diretto da Mark Jenkin. Un’opera che non punta a rispondere, ma a interrogare. E che fa dell’assenza il suo vero protagonista.


Un linguaggio spezzato per un territorio fuori dal tempo

Fin dalle prime immagini il film stabilisce una grammatica visiva fatta di imperfezione e suono “sporco”. La pellicola 16 mm granulosa, l’immagine tremolante, i montaggi (tagli netti e non raccordati) non sono meri espedienti estetici: sono il veicolo scelto da Jenkin per penetrare l’essenza di una storia che sembra sospesa tra ricordo e incubo. Rose of Nevada non vuole narrare il disastro, ma attraversarne l’eco. Ogni scena ha il senso della sottrazione, dell’attesa, dell’ignoto.


La trama che “non si compie”

Una nave, la Rose of Nevada, scomparsa trenta anni prima nelle gelide acque scandinave, improvvisamente riemerge. È intatta, ma desolatamente vuota: nessun superstite, nessuna spiegazione. Nel silenzio del suo ritorno c’è già una sparizione. Jenkin non cerca di spiegare, ma di sondare il mistero. Il film diventa una riflessione sull’assenza: le immagini sono epitaffi in movimento, racconti che non arrivano a conclusione ma restano sospesi nell’aria.


Temi e sensazioni: memoria, vuoto, identità

Il tempo in Rose of Nevada non è lineare. Orbita, si piega su sé stesso, si nasconde nei dettagli. Siamo di fronte a un cinema che somiglia a una meditazione: vicino all’estetica contemplativa di Béla Tarr ma più personale, più intimo.

I personaggi appaiono come ombre in una scenografia rarefatta: figure che cercano senso in un mondo che sembra aver dimenticato. Nulla funziona come stabilità, nulla è certo. Solo la sensazione, forte, che qualcosa si sia rotto.

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Valutazione finale

Rose of Nevada non è un film per tutti. Non offre conforto, né risposte chiare. È piuttosto un’esperienza cinematografica che disorienta, che sfida lo spettatore a lasciare il terreno solido della trama riconoscibile per vagare nel mare dell’inespresso. Un “naufragio percettivo”, come lo definisce la recensione, che non cerca la preda ma il riflesso che lascia chi osserva.


🎯 Perché vederlo

Se cerchi un film che restituisca suggestione anziché chiarezza; se vuoi guardare non solo ciò che accade, ma ciò che non si dice, Rose of Nevada è un titolo da non perdere a Venezia. È il cinema della domanda continua, dell’immagine che resta sospesa, dell’assenza che parla di più di ogni cosa.