Sono le 15:00, ora statunitense, del 16 agosto 1977: l’entourage medico del Baptism Memorial Hospital di Memphis, dopo aver più volte tentato invano diverse manovre di rianimazione, si vede costretto a dichiarare il decesso del cantante e showman Elvis Aaron Presley causato da un arresto cardiaco. Aveva 42 anni. Nei giorni successivi sono migliaia le persone che accorrono alle porte della sua mastodontica dimora di Memphis, Graceland, per tributargli un ultimo saluto lasciando fiori all’entrata, raccogliendosi in preghiere di gruppo (Elvis era molto religioso e i suoi fans ben lo sapevano), versando litri e litri di lacrime.
Da tempo quel monumento dello show business non stava bene: la depressione nella quale era caduto nel 1973 a seguito della separazione dalla moglie Priscilla lo aveva gettato in un vortice fatto da barbiturici, antidolorifici e un altro imprecisato numero di farmaci che, seppur regolarmente prescritti, hanno indubbiamente causato il cocktail micidiale che ha messo a tacere la sua bellissima voce per sempre. Se poi aggiungiamo a questo irregolare e spasmodico utilizzo di farmaci un’alimentazione irregolare e patologica, capiamo il perché di quel goffo e gonfio figuro che ha continuato a girare imperterrito le arene statunitensi durante tutti i settanta fino alla fine estrema. Eppure lo stesso decennio era iniziato sotto le migliori luci, con un Elvis rinvigorito dal successo del Come Back Special del 1968 e da una nuova verve discografica e concertistica, nulla a che vedere con il declino che lo vedrà purtroppo protagonista solo pochi anni più tardi.
La parabola di Elvis rappresenta allegoricamente quell’american dream più volte ostentato dai territori a stelle e strisce, tanto appagante quanto facilmente chiudibile al primo accenno di crisi: nato l’8 gennaio 1935 a Tupelo, Mississippi, da Vernon Presley e Gladys Love Smith (la madre che lui sempre tanto amerà), unico gemello dei due attesi sopravvissuto al parto (il fratello Jessie Garon Presley morirà appena nato e sarà poi sepolto vicino all’abitazione di famiglia), vivrà i primi anni della sua vita in una piccolissima casa (oggi al 306 di Elvis Presley Drive) del medesimo paese in cui è nato, amato e protetto da due genitori amorevoli ma facenti parte di quella working class americana che risente ancora profondamente della crisi economica del 1929. Nonostante le difficoltà della famiglia, Elvis e i genitori si trasferiscono a Memphis, Tennessee, nel 1948, con la speranza di dare nuovo vigore al proprio tenore di vita e per consentire al giovane Elvis nuove opportunità prima scolastiche e poi lavorative. Sarà proprio Memphis ad accendere nel giovane l’interesse per la musica: ogni quartiere della città trasuda blues, jazz, rhythm and blues e gospel, humus culturale che sarà terreno oltremodo fertile per la formazione di Elvis. L’incontro con esponenti dei quartieri neri, ma anche con musicisti country frequentanti luoghi della città aperti solo ai bianchi (ricordiamo la profonda intolleranza razziale ancora presente all’epoca nel sud degli Stati Uniti), nonché l’ascolto continuo delle più svariate emittenti radiofoniche, catturano l’adolescente Elvis tanto da spingerlo a suonare la chitarra e distinguersi tra i suoi compagni della high school proprio grazie alle sue doti musicali e a una già strepitosa presenza scenica. L’incontro del 1954 con Sam Phillips della Sun Records, casa discografica locale con proprio studio di registrazione dove Elvis si reca per incidere My Happiness come regalo per la madre Gladys, si trasforma nella miccia che fa esplodere la stella del giovane con le basette: Phillips contatta due turnisti con i quali collabora spesso, l’eccellente e fondamentale Scotty Moore alla chitarra e il contrabbassista Bill Black, e li mette al servizio di Elvis per un turno di registrazione dove nascerà il primo fulmineo 45 giri del giovane cantante, ovvero That’s Alright Mama/Blue Moon Of Kentucky. Ormai la storia non può più fermarsi: con l’aggiunta del batterista D.J. Fontana il quartetto dei Blue Moon Boys è al completo ed è pronto a impadronirsi musicalmente dei sud degli Stati Uniti, con show elettrizzanti dove le movenze dall’elevato sex appeal di Elvis (qui nasce la nomea Elvis the Pelvis from Memphis, ovvero «Elvis il bacino da Memphis») creano reazioni nel pubblico, soprattutto quello femminile, caratterizzate da elevato tasso di isteria; si può dire che tale isteria collettiva lui sia stato il primo a procurarla, seguito nei ’60 dall’avvento dei Beatles in Inghilterra.
È agli albori che Elvis dà il meglio di sé, in quegli anni 50 segnati dal conflitto generazionale tra i teenagers di allora e i propri genitori, conflitto rappresentato non soltanto dalla figura musicale di Elvis ma anche dal carisma di attori cinematografici quali Marlon Brando e soprattutto James Dean. Proprio per Dean era stata scritta la sceneggiatura di King Creole, film del 1958 interpretato poi magistralmente da Elvis a causa della prematura scomparsa del protagonista di Gioventù Bruciata (l’impegno cinematografico di Elvis, caratterizzato da eccellenti risultati come il già citato King Creole e Jailhouse Rock ma anche da tanto ciarpame di natura prettamente commerciale, prenderà il via dopo che Elvis si sarà affidato al nuovo manager, ovvero il famigerato Colonnello Parker, il quale spingerà affinché il suo beniamino lasci la Sun Records in favore della newyorkese RCA). Musicalmente parlando, Elvis fonde tutte le radici musicali che aveva assorbito nell’adolescenza a Memphis, mescolando Rhythm and Blues con Country, Blues e Gospel, dando «il la» a quello che sarebbe stato poi chiamato Rock’n’Roll. Non si può dire che sia stato il solo inventore di questo nuovo genere di musica (sempre ammesso che la suddivisione in generi della popular music possa ancora avere oggi un qualche senso), i germi erano già nell’aria grazie a eccellenti musicisti quali Chuck Berry, forse il vero papà strumentale della nuova musica giovanile degli anni 50, e a istrionici animali da palcoscenico come Little Richard e Jerry Lee Lewis, per non parlare poi di un musicista che ha senz’altro avuto meno fortuna ma non per questo meno importanza come Buddy Holly. Elvis è però colui che, forse con una punta di ingenuità e con labile consapevolezza, abbatte con violenza le barriere razziali, sia musicalmente che sociologicamente parlando, ancora presenti tra bianchi e neri: l’aspetto dell’autoralità non è presente nel suo caso (pochissimi sono i brani da lui firmati, un esempio è quella Love Me Tender che contribuirà a renderlo ancora più celebre anche grazie alla pellicola omonima), ma lui è l’«Interprete» del Blues nero, del Country bianco, del Gospel e dello Spiritual, è quindi l’«Interprete» di una generazione di giovani che comincia a detestare e a non riconoscere più le differenze di razza e classe sociale che hanno caratterizzato i propri padri. Non sempre questa condizione di bandiera sociale porterà bene al giovane Elvis: l’isteria con la quale veniva accolto ai concerti, nonché le movenze messe in atto sul palco, gli causeranno diversi guai con la legge, come quella volta in cui tirò un pugno a un benzinaio che gli aveva intimato con modi non propriamente signorili di non fare rifornimento alla propria pompa di benzina poiché attirava fiotti di giovani fans desiderose di autografo, o come quella volta in cui, a seguito della gestualità del bacino ostentata durante una apparizione in un noto show televisivo, fu denunciato dalle comunità puritane degli Stati Uniti e obbligato a essere inquadrato dalle telecamere a partire dalla cintola in su durante le future presenze televisive, pena l’arresto istantaneo.
Gli anni 60 non godono certo di minor importanza per la carriera di The King (così verrà soprannominato sia in vita che, soprattutto, dopo morto), ma rappresentano per Elvis soprattutto una conferma del proprio status di superstar, con i pro e i contro che tale status comporta. Se da una parte l’ormai quasi trentenne artista avrebbe voluto sperimentare nuove strade musicali e cinematografiche, tramite l’esplorazione di nuove scelte stilistiche nascenti in quel periodo, con la partecipazione a pellicole di maggior spessore rispetto a quei filmetti tutti uguali realizzati per pura monetizzazione, nonché organizzando il tanto agognato ma mai realizzato tour in Europa, dall’altra parte il Colonnello Parker fece di tutto per mantenere Elvis sempre uguale a sé stesso, almeno fino alla metamorfosi di Las Vegas operata a fine 60 e inizio 70, periodo che, come già detto in precedenza, si apre trionfalmente con una nuova verve artistica (se si guarda oggi qualche filmato del periodo si riscontra un Elvis in forma smagliante ricoperto dai caratteristici abiti bianchi che ormai tutti conosciamo) e così continuerà almeno fino alla stagione che sta a cavallo tra il ’73 e il ’74.
Per tutto questo e per tanto altro ancora Elvis è e rimarrà immortale, perché volente o nolente ha rappresentato e continua a rappresentare l’eterna contraddizione di quel sogno che soprattutto per tanti nostri avi europei ha significato l’America: un paese dalle infinite possibilità, dove partendo da meno del nulla si può arrivare a toccare il cielo con un dito, ma dove è anche possibile cadere da quel cielo in maniera rovinosa e non rialzarsi più. Elvis non si è rialzato ma noi, musicalmente parlando, gli dobbiamo tanto, ecco perché la cosa migliore che possiamo fare è alzare noi stessi il volume e goderci questo meraviglioso spezzone tratto dal Come Back Special del 1968 in cui, avvolto da un leggendario abbigliamento in pelle, il nostro si esibisce in un medley composto dalle roboanti Heartbreak Hotel, Hound Dog e All Shook Up.
Long live The King!