“Dobbiamo combattere per riavere il nostro Paese”, è l’appello lanciato dal regista.
Al Ryerson Theatre di Toronto è stato presentato Fahrenheit 11/9, il tanto atteso film di Michael Moore sul nemico numero uno dell’America: Donald Trump. E nonostante il bagno di folla e l’ovazione che lo accoglie, mostra tutti i segni della stanchezza di combattere quella lunga battaglia che lo ha visto affrontare i vari mali della sua America: l’ingordigia dell’industria automobilistica (Roger & Me), la diffusione delle armi da fuoco (Bowling a Columbine), la scomposta reazione repubblicana agli attentati dell’11 settembre (Fahrenheit 9/11), la corruzione del sistema sanitario (Sicko), l’ingordigia di Wall Street (Capitalism: A Love Story), il declino della democrazia (Where to Invade Next). In questo senso, fin dal titolo del suo nuovo film, che guarda allo specchio la data in cui gli attentati alle Torri Gemelle hanno privato gli americani di qualsiasi possibilità di spensieratezza, Fahrenheit 11/9 è quasi un testamento d’autore: niente è peggio che vedere The Donald alla Casa Bianca. Il film inizia nella notte elettorale, quando gli exit poll danno vincente Hillary Clinton, ma poi all’improvviso la realtà prende una brutta piega e Trump diventa Presidente. Come accidenti è potuto accadere? Moore lo spiega in due ore in cui il magnate americano è meno presente sullo schermo di quanto ci si possa aspettare.
Si passa ad analizzare la scalata di Donald da outsider del Partito Repubblicano a uomo capace di sconfiggere uno dopo l’altro i contendenti, compreso l’ultimo rampollo dei Bush, ex governatore della Florida. Quando la candidatura diventa ufficiale, Moore mostra un breve compendio del razzismo e sessismo di Trump, in cui la parte più disturbante è rappresentata da una serie di foto in cui cinge i fianchi della figlia adolescente Ivanka, sequenza conclusa col celebre e bizzarro commento in diretta tv: “Se non fossi suo padre le chiederei di uscire a cena”.
A questo punto, per non focalizzarsi troppo sui noti vizi del Presidente, Moore torna a casa, nella sua Flint in Michigan, per gettare luce sul caso dell’acqua inquinata dal piombo che ha fatto ammalare 10mila bambini e causato vari decessi tra la popolazione locale, e le cui colpe ricadono sul governatore repubblicano Rick Snyder. L’escamotage serve per mettere in risalto gli eroi positivi e i cattivi di questa storia. Da un lato c’è la donna che si è rifiutata di falsificare i rapporti sulla concentrazione di piombo nell’acqua e ha pagato col licenziamento, dall’altro non solo c’è il governatore Snyder, ma addirittura il presidente Obama, che accorso con l’Air Force One nella cittadina, ha finito per rivelare la sua vera natura: chiede di bere un bicchiere d’acqua, in cui bagna solo le labbra, per dimostrare che la situazione è sotto controllo. “Prima di arrivare qui era il mio eroe”, commenta una cittadina nera di Flint “Ma ora ho capito che è come tutti gli altri”. Forse è questo il momento più forte e inatteso del documentario, in cui Moore punta il dito direttamente contro i democratici, colpevoli dei brogli ai danni di Bernie Sanders per favorire Hillary Clinton e di una politica corrotta al servizio delle multinazionali.
Dopo aver snocciolato una serie di statistiche che dimostrano come in realtà l’America sia un paese di sinistra, Moore conclude il suo viaggio nella nazione mostrando la protesta degli insegnanti della West Virginia per un aumento salariale e quella degli studenti di Parkland, vittime dell’ennesima strage causata dalla libera circolazione delle armi.
A questo punto è arrivato il momento di tornare al soggetto principale del film, il Presidente: nel passaggio che eleva un documentario abbastanza prevedibile in cinema allo stato puro, Moore mostra la folla radunata a Norimberga per acclamare un discorso di Adolf Hitler, che parla però con la voce e le parole di Donald Trump. Con questo paragone Moore lancia un monito sui rischi di un lento, inarrestabile sprofondamento della democrazia in dittatura, per poi mostrare il Presidente alludere all’idea di cambiare la Costituzione per permettergli di non abdicare mai, “come l’amico Xi Jinping, eletto presidente cinese a vita”. Il documentario, accolto con un’ovazione dal pubblico della prima, è forse tra i più cupi mai girati da Moore. Il regista, a 64 anni, sembra stanco di lottare sullo schermo e nella vita: “Questo film è fondamentale, come la lotta delle nuove generazioni per dare all’America un futuro migliore. La parola d’ordine è: azione!”, dice ai giovani di Parkland, con lui sul palco, prima di avviarsi tristemente all’uscita.