Magliana Nuova. Alla scoperta del territorio con il libro di Zitelli Conti

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Abbiamo incontrato e intervistato Giulia Zitelli Conti, giovane autrice di “Magliana Nuova: Un cantiere politico nella periferia romana (1967 – 1985)” volume edito da Franco Angeli nel 2019. Di formazione storica, l’autrice ci racconta anche l’importanza della memoria storica e della storia orale come strumenti utili per la salvaguardia, lo sviluppo e la crescita dei territori, soprattutto quelli definibili come storici e/o periferie.

Giulia, ci puoi parlare meglio del territorio della Magliana?

Il quartiere sorge nella periferia sud-orientale di Roma, anche se oggi è ben collegato al centro città, ed è abitato da circa 26 mila persone. Negli anni Settanta ha vissuto un’intensa stagione di lotte sociali, legate soprattutto alla questione abitativa – che ancora oggi è la questione della capitale – per cui è stata teatro di diverse ondate di occupazioni abitative e palcoscenico di un lungo movimento di autoriduzione degli affitti iniziato nel 1971. Quella che comunemente chiamiamo Magliana è in realtà la “Magliana Nuova”, corrispondente alla zona che l’amministrazione comunale identifica come “Pian Due Torri”, che si distingue da una “Magliana Vecchia” la quale si protende verso Fiumicino. Non è un rione e in senso strettamente amministrativo, non è neanche un quartiere. Tuttavia, è fortemente percepito come tale da chi lo abita. Questo territorio, insieme ad altri quartieri di Roma come San Basilio e Primavalle, ha avuto un percorso storico caratterizzato da un’intensa conflittualità politico-sociale agita, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, da diverse organizzazioni come i comitati di quartiere, i comitati di lotta per la casa, i collettivi femministi e componenti più o meno organizzate del cattolicesimo del dissenso. Anni complessi e ricchi di esperienze “dal basso”. A questa fase di protagonismo sociale “conflittuale ma positivo” della periferia, è subentrato un periodo segnato invece dal riflusso nel privato, dall’esplodere della violenza politica, dalla devastante diffusione di eroina, dal dilagare della microcriminalità. A causa di queste ragioni generali, dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi, di Magliana si parlerà unicamente in relazione all’omonima Banda e al Canaro. Nel caso specifico di Magliana, poi, c’è da considerare anche che, a metà degli anni Ottanta, il raggiungimento di un accordo con le società proprietarie degli appartamenti degli autoriduttori e di parte degli occupanti ha permesso a centinaia di famiglie di comprare gli appartamenti a prezzi ribassati rispetto al mercato immobiliare, ma ha anche contribuito a interrompere una lunga stagione di “vita collettiva”. Solo recentemente, e con fatica, il quartiere si sta liberando di questa nomea.

Perché hai deciso di parlare proprio di questo territorio?

Come spesso accade un po’ per la curiosità di riscoprire una storia “sommersa”, un po’ per coincidenze e occasioni. Non sono cresciuta a Magliana, ma ho sempre vissuto nei quartieri limitrofi, a Roma sud. Ho frequentato il liceo Platone, in via Nistri, poco distante, proprio sull’altra sponda del Tevere. Ero certa di voler studiare la città nell’età contemporanea per provare a capire i luoghi che abitiamo e attraversiamo quotidianamente. Penso che le periferie possano raccontare tanto altro rispetto alle narrazioni mediatiche che, generalmente, se ne interessano solo per vicende di cronaca nera. L’altra faccia della medaglia delle periferie si scopre negli archivi, certo, sia istituzionali che locali – e che ricchezza sono i fondi territoriali! Al Pilastro avete questo centro culturale straordinario che è la Biblioteca Luigi Spina, che raccoglie tanta documentazione sul rione – ma anche ascoltando le persone che le vivono, raccogliendo le loro storie di vita e le memorie delle attività che hanno portato avanti per migliorare le condizioni di vita della comunità. Tutte le periferie hanno qualcosa in comune, ma tutte sono allo stesso tempo profondamente diverse. Credo che raccontarne la storia anche attraverso le voci delle persone sia molto importante per cogliere questi elementi.

Questo si collega alla storia orale. Ci puoi raccontare di cosa stiamo parlando?

La storia orale è nata nel secondo dopoguerra quando i nostri “pionieri”, come Nuto Revelli, si sono messi in marcia, magnetofoni alla mano, per andare a raccogliere testimonianze di “persone comuni”, voci della gente delle classi popolari le cui biografie, esperienze e attese non trovavano spazio nella storia tradizionale. La storia orale ci consente di dare “corpo e voce” al racconto, di immettere le soggettività nelle storie collettive, di esplorare ambiti che altro tipo di documentazione non ci consente di indagare approfonditamente – a me è successo per esempio per quanto riguardava le occupazioni di via Pescaglia –. Oggi è un approccio sempre più utilizzato, anche in Italia, in tanti ambiti diversi. Certamente anche per conoscere la storia delle città, valorizzare i territori, tramandare e salvaguardare la memoria e le memorie. Voglio dire anche questo: la storia orale è una pratica democratica che prevede sempre la mediazione tra la conoscenza storiografica del ricercatore e la memoria elaborata dall’intervistato. Tendiamo a vedere la storia come lo studio del passato e basta. Ma la storia orale ci ricorda che c’è un filo tra presente, passato e futuro, e allora la raccolta delle voci della memoria è anche un modo per tenere vivi i luoghi ed esplorare progettazioni per il futuro. Qui al Pilastro, con l’Associazione Mastro Pilastro e la collaborazione di tanti cittadini impegnati in altre strutture locali, stiamo facendo un lavoro importante: raccogliamo interviste e lo facciamo in rete, ricercatori, curiosi, attivisti, abitanti. Un progetto partecipato, un cantiere aperto al rione.

E poi ci sono le scuole di storia orale?

Si, come quella che faremo a Bologna il 20 e il 21 settembre prossimo, organizzata da AISO -Associazione Italiana di Storia Orale in collaborazione con l’Associazione Mastro Pilastro sui temi delle periferie urbane e, nello specifico, sul Pilastro. La Scuola è diretta da Antonio Canovi e me ed il programma è ricco: affronteremo, ad esempio, la storia urbanistica del rione, l’uso di fonti orali per la storia delle città e l’archiviazione delle fonti sonore. Geoesploreremo assieme il paesaggio urbano e incontreremo alcuni abitanti che ci racconteranno il loro rapporto con il Pilastro. Le Scuole AISO offrono l’occasione di fare un’esperienza diretta, seppur “super concentrata”, di ricerca con le fonti orali e di acquisire, o affinare, gli strumenti della nostra “cassetta degli attrezzi”. Vorrei dirti anche questa cosa: il mio libro è stato pubblicato all’interno del progetto diretto da Lidia Piccioni Un laboratorio di storia urbana: le molte identità di Roma nel Novecento” della casa editrice Franco Angeli. Nella stessa collana, “Temi di storia”, è stato pubblicato il libro di Giovanni CristinaIl Pilastro. Storia di una periferia nella Bologna del dopoguerra”. Per un caso davvero fortuito i due testi hanno lo stesso colore di copertina… non so, mi sembra una simpatica analogia, forse era destino che andassi a conoscere quel rione.

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