SERIE TV: le ragioni del successo del “prison drama”

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Negli ultimi anni il prison drama ha contagiato l’universo delle serie tv. Da Oz ad Alcatraz, da Prison Break a Orange is the New Black, solo per citarne alcune. Il carcere e le storie dei suoi inquilini galeotti hanno rubato il cuore di milioni di telespettatori.

In ordine temporale, Oz (1997-2003), è stata la prima serie a trattare la tematica carceraria. Lo ha fatto con una trama e delle dinamiche innovative, che hanno segnato un punto di rottura con il passato e una linea di continuità con pellicole cinematografiche di successo, ambientate sullo stesso sfondo (Papillon, Fuga da Alcatraz, Le ali della libertà, Il miglio verde, etc.).
L’attenzione del telespettatore è catturata non da uno solo, ma da tanti personaggi, di cui viene narrata la vita dietro le sbarre. I ‘cattivi’ diventeranno i  ‘buoni’, perché il telespettatore, quasi senza rendersene conto, parteggera’ per loro. La comune  morale sociale dovrà recedere di fronte alla cruda realtà del microcosmo carcerario. Non c’è spazio per i giudizi di valore perché i personaggi non mirano alla redenzione ma solo alla sopravvivenza. Questo li porterà a modificare, anche in peggio, il proprio carattere e a compiere orrendi crimini. Del resto, solo uniformandosi agli atipici schemi sociali del carcere, riusciranno a non rimanerne schiacciati.
Prison Break (2005-2017), si discosta, solo in parte, dall’impalcatura narrativa sopradescritta. I suoi personaggi, infatti, trascorreranno molto del loro tempo anche lontano dalla cella. Le fughe inarrestabili, piene di pericoli ed imprevisti, rappresenteranno l’intermezzo tra una prigione e l’altra.
All’interno e fuori dalle mura delle diverse prigioni conosceremo sia il presente che il passato dei protagonisti. Tra progetti di evasione e cruenti sfide per la sopravvivenza, si insinueranno lunghi flashback sulla vita precedente alla reclusione. Conosceremo a tutto tondo i personaggi e riusciremo ad immedesimarci in ogni loro stato d’animo. Faremo il tifo tanto per il più buono, quanto per il più crudele, ed assisteremo con il fiato sospeso a molteplici tentativi di fuga.
Stesso sfondo per “Orange is the New Black” (2013-2018). I protagonisti sono la vera novità. È infatti una serie tutta al femminile che racconta la vita delle detenute nel carcere federale di Litchfield. La trama è fitta di tematiche sociali di rilievo. Si passa dalla sessualità alla questione razziale, dalla prostituzione alla tossicodipendenza; il tutto scandito (anche in questo caso) dalle frequenti digressioni sulla vita passata delle recluse. Più che mai, in questa pellicola, viene sottolineata la dicotomia tra detenuti e personale penitenziario. Quest’ultimo, chiamato a regolare la vita interna al carcere, si dimostrerà più corrotto e spietato di chi è tenuto a sorvegliare. Il bene e il male sempre in prima linea dunque, ma la prospettiva è distorta, quasi capovolta. E lo spettatore, portato come sempre a prendere posizione, non potrà che sostenere i presunti cattivi, più buoni di coloro che dovrebbero essere i ‘veri’ buoni.
Il successo smisurato che questo genere di serie tv ha riscosso negli anni spinge a porsi alcuni interrogativi. Primo e più importante tra tutti: perché storie di detenuti, ambientate in un universo crudele, severo e talora perverso, suscita tanto le simpatie del pubblico?
La risposta è forse più semplice di quanto ci si aspetti.
Il telespettatore è chiamato ad osservare le dinamiche che si innescano in una cerchia ristretta di persone. Conosce le loro vite grazie a racconti in prima persona o tramite flashback accompagnati da una voce narrante. Niente di più appagante per l’occhio di chi guarda e l’orecchio di chi ascolta. La visuale è privilegiata, la richiesta di concentrazione non è eccessiva; non c’è, infatti, la pretesa di costanti collegamenti visivi o concettuali. Lo spettatore si trova in una “comfort zone” più unica che rara. Non c’è un unico protagonista, che spesso può non risultare troppo simpatico. Le possibilità di immedesimazione sono molteplici e questo risulta rassicurante. Non deve inoltre essere sottovalutata la spinta emotiva, determinata dall’umana curiosità,verso un mondo per lo più sconosciuto. La prigione, un po’ come l’inferno dantesco, è percepita, da parte di chi non l’ha mai vissuta, come una dimensione parallela, dai contorni sfumati e surreali. Una realtà che pullula di personaggi grotteschi e di storie distanti anni luce dal comune concetto di normalità, con cui nessuno spera di avere mai a che fare.
Eppure, proprio questo suscita tanto interesse. La scoperta dell’ignoto,  di quello che spaventa e che al contempo attrae. La possibilità di calarsi nelle vesti di un crudele assassino piuttosto che affrontare fughe rocambolesche in compagnia di personaggi perversi e spietati. Paure recondite, desideri soppressi e inconsci desideri di fuga dal reale trovano realizzazione su un schermo televisivo.
Si può dunque affermare che il prison drama abbia la capacità di scuotere gli animi e di innescare dinamiche psicologiche particolarmente complesse.
Questa è probabilmente la chiave di lettura del successo di un genere che non finisce mai di stupire e di riscuotere grandissimi consensi.

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