La classe operaia va in paradiso continua la stagione teatrale a Genova, poi a Trieste. Sarà infine a Ferrara e Parma. Lo spettacolo teatrale, che ha avuto molto successo di pubblico e di critica, si ispira al film di Elio Petri e Ugo Pirro, del 1971. La rappresentazione, corale, ai avvale della partecipazione di Lino Guanciale. La sceneggiatura è quella di Petri e Pirro. L’adattamento per il teatro è di Paolo Di Paolo. Recitano con Lino Guanciale: Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea. E ancora: Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini. Le scene sono di Guia Buzzi, i costumi di Gianluca Sbicca, le luci di Vincenzo Frati. Cura le musiche e gli arrangiamenti Filippo Zattini. Lo spettacolo è prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione per la regia di Claudio Longhi.
Lo spettacolo
Tratto dal famoso film, che diede ulteriore fama al grande Volontè e alla divina Melato, lo spettacolo ha avuto a teatro molto consenso dal pubblico. Rappresentazione che oltre a rifarsi al film, fa un parallelismo anche con la nostra drammatica condizione lavorativa. Si tratta di una sceneggiatura del 1970, quando la classe operaia era molto corposa, nelle grandi aziende paternalistiche, soprattutto del nord Italia. Era il periodo delle ultime grande migrazioni, e manifestazioni; prima della fase di concertazione sindacale. Lo spettacolo si ispira a quel periodo storico e sfrutta l’indole corale di Guanciale, marsicano puro, che forse per retaggio culturale, non ama i protagonismi troppo egocentrici.
La storia narra la vicenda di Lulù Massa, interpretato da Guanciale. Sono i mitici anni ’70, periodo di rivendicazioni di diritti sindacali. Lulù ha fiducia nella sua grande fabbrica. E’ un instancabile lavoratore, ma a causa di questa sua dedizione al “padrone”, è odiato dai colleghi, che in quel periodo rivendicano diritti imprescindibili. Il lavoro è frutto di una contrattazione e non dello sfruttamento di chi paga quanto vuole. Lulù, per troppa dedizione, mentre lavora, perde purtroppo un dito. Ai tempi le leggi sulla sicurezza sul lavoro erano ancora un miraggio. Il protagonista scopre così una coscienza di classe, che non aveva, per troppa fiducia verso chi gli assicurava la sopravvivenza, sfruttandolo.
La condizione è quella della classe operaia dell’epoca, una condizione alienante, già descritta decenni prima da Chaplin, in Tempi moderni. Classe che unita ha ancora la forza di combattere per condizioni di lavoro dignitose.
Conclusioni
La classe operaia va in paradiso non è una semplice trasposizione teatrale di una fase storica ormai conclusa. Si pone l’obiettivo di comparare le vecchie problematiche a quelle odierne. Se un tempo gli ambienti di lavoro erano al limite della “sussistenza”, oggi, nonostante ambienti asettici e ordinati, le condizioni sono peggiorate. Si può vivere con stipendi contrattati solo da multinazionali, che non permettono però di arrivare a fine mese.
Il lavoro è un diritto simbolo di dignità, o un dovere che torna indietro di decenni, e addirittura di secoli: ai tempi dei servi della gleba e dello schiavo più o meno felix?
Spiega Longhi nelle note di regia: “Bizzarro combinato di stili, con una sceneggiatura che qua e là strizza l’occhio alla commedia all’italiana ma si lascia altresì tentare, nel suo impasto cromatico dall’estremismo espressionista, il film di Petri, scandito dalla musica dura e pervasiva di Ennio Morricone, ha il merito di aver provato ad abbozzare una narrazione dell’Italia attraverso il lavoro, oltre i furori utopici di quegli anni febbrili che seguirono il Sessantotto.
Conclude il regista: “Riattraversarne la vicenda con lo sguardo disilluso del nostro presente, a quasi dieci anni dall’ultima crisi economica mondiale, significa riflettere su quanto quell’affresco grottesco immaginato da Petri nel 1971 sia più o meno distante. Se dunque l’inferno umido e grasso della fabbrica cottimista dell’operaio Lulù Massa appare ben lontano dagli asettici e sterilizzati spazi industriali o dai lindi uffici dei precari odierni, lo stesso non è del ritmo ossessionante e costrittivo di una quotidianità, allora e ancora oggi, alienata”.