Ascoltare Jaboni è come sorvolare una terra inesplorata. La sua musica è il propellente magico che, come la polvere di Campanellino, permette al nostro bimbo interiore di librarsi in volo verso il Pianeta della Felicità.
Quando nasce artisticamente Jaboni?
“Jaboni nasce nel corso di due anni fa, quando inizio a raccogliere del materiale che avevo scritto insieme a Giorgio Lorito, il mio produttore artistico. Da lì è partito un progetto che, nel tempo, ci ha portato a creare belle cose che stiamo ora portando al pubblico”.
Il progetto nasce due anni fa, ma immagino che il tuo rapporto con la musica abbia più antiche radici.
“Assolutamente. Due anni fa si è concretizzato qualcosa che potevamo portare al pubblico, ma il mio rapporto con la musica nasce da adolescente. Al di là di un ascolto veramente maniacale, suonavo la chitarra e le percussioni. Poi, all’età di 20 anni, mi sono trasferito a Roma. Lì ho iniziato a partecipare a molti contest, festival canori, e sono entrato a far parte di due formazioni corali: un coro gospel e un coro di voci a cappella. Con queste formazioni mi esibivo nei teatri e in altri contesti interessanti. Ho fatto un bel po’ di cose”.
Le tue canzoni potrebbero far parte della colonna sonora di un film. Qual è il percorso musicale e creativo che ti ha portato a questo risultato?
“Questa cosa che dici mi fa piacere, perché è un po’ anche l’intenzione che cerco di mettere nella musica che creo. Le sonorità che ho sempre ascoltato sono quelle che si legano a delle atmosfere da colonna sonora, con strumentazioni che vanno dai synth agli archi, quasi orchestrali. Ho cercato di riportare queste atmosfere, aggiungendoci magari un tocco di modernità, con melodie che potremmo definire radiofoniche”.
E come mai i testi in inglese?
“Si è trattato di un processo naturale. La musica che ho sempre ascoltato è quella di stampo internazionale, dal pop anglosassone a quello americano. Poi ho notato che, quando mi veniva in mente qualche idea, mi veniva in inglese, e da lì ho lasciato che il processo creativo andasse avanti istintivamente. Ho provato a scrivere in italiano, ma il prodotto si allontana da quello che è il progetto attuale”.
Ascoltando “Endless time”, e immergendosi nel testo, viene naturale l’accostamento al Piccolo Principe. Nasce da lì l’ispirazione?
“In realtà è stato un po’ un processo inverso. L’idea era di parlare di quella cosa che ci fa guardare il mondo con occhi diversi, gli occhi del bambino che comunque rimane un po’ in noi. Per me quella cosa è la musica, ma nel testo ognuno può leggervi la propria. In ‘Endless time’ abbiamo questo bimbo interiore che ci accompagna verso un pianeta privo di preoccupazioni e problemi. L’idea del videoclip, dove vediamo il bambino vestito da astronauta che accompagna l’adulto, è venuta in seguito. Ed è stata una sorpresa, per me, scoprire quanto l’idea si avvicinasse al tema del Piccolo Principe, che è stato forse il primo libro che abbia mai letto”.
A questo punto devo chiedertelo: che rapporto hai con il tuo bambino interiore?
“È molto presente, a volte anche troppo, però cerco sempre di ascoltarlo. Lui è la parte di me che mi fa stare sempre bene”.
Possiamo quindi dire che “Endless time” l’avete scritta a quattro mani: il bambino domandava e l’adulto rispondeva. E viceversa.
[ride] “È una bellissima immagine e sì, devo dire che è stato un po’ così. Il brano, infatti, comincia con una serie di domande: ‘Hai mai visto una stella cadente? / L’hai mai vista toccare il suolo? / Hai mai sentito il suo rumore?’ Che è poi un altro modo per dire: ti rendi conto di quello che c’è intorno o pensi solo ai problemi di tutti i giorni?”
Se un giorno ti offrissero di duettare con un artista internazionale, chi sceglieresti?
“Ne sceglierei molti, in realtà. Ultimamente ascolto molto James Blake, che mi ha dato tanta ispirazione, e forse sceglierei lui. Mi divertono molto anche le ultime produzioni di Miley Cyrus, che è un altro mondo, ma la buona musica è fatta da buone canzoni, a prescindere da chi è l’artista”.
Sin da 20enne tu vivi a Roma: quanto ha influito tutto quel ben di Dio che ti circondava nella tua crescita artistica?
“Roma mi ha dato una grandissima spinta. Ho iniziato a conoscere gli ambienti dove la musica era presente e ne sono uscito con una consapevolezza maggiore di cosa volevo fare. L’ambiente underground, poi, è pieno di situazioni interessanti: concerti e locali dove si mettono in piedi jam session o dove si esibisce un artista di particolare bravura”.
Eri parte integrante del circuito musicale della capitale.
“Ho cercato di viverlo a pieno come fruitore. Cercavo di assistere a quanti più concerti possibile, anche di partecipare a serate, anche clubbing. Mi è sempre piaciuta la musica elettronica. Ho ascoltato un po’ di tutto e l’idea di stare in un locale con le persone e godersi la musica è sempre stato un momento di ispirazione, che mi alimentava”.
La tua musica e i testi sono parecchio introspettivi. Sei così anche nella vita di tutti i giorni o è un tratto che emerge quando ti siedi a scrivere?
“Ho una base che è un po’ malinconica e nostalgica, che viene fuori con maggior prepotenza quando scrivo o penso alle mie canzoni. Il processo creativo, almeno per me, nasce quasi sempre quando si ha bisogno di stare da soli. E da lì nascono le maggiori ispirazioni”.
Cosa c’è nel futuro di Jaboni?
“Questo singolo, Endless time, e quello uscito ad aprile [Love comes back to me] fanno parte di un progetto più ampio che raccoglie altri brani. Vorrei farli uscire nei prossimi mesi del 2022, sempre a capitoli, di modo da poter dedicare maggiore attenzione ad ognuno dei pezzi”.