Il Numetal mascherato colpisce ancora: We Are Not Your Kind degli Slipknot traccia per traccia

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Sugli Slipknot, in termini di importanza e presenza nel mondo Metal odierno, c’è poco da dire oltre al già ben noto ai molti: dal loro omonimo debutto del 1999, la combriccola di nove metallari mascherati statunitensi originari dell’agreste stato del Iowa ha fatto parlare di sé in più occasioni, grazie sia a episodi discografici equivalenti al proverbiale «pugno nello stomaco» come l’acclamato e celebrato (almeno dai fan più accesi) Iowa del 2001 sia a manifestazioni di carattere decisamente più melodico contenute nel successivo Vol. 3: (The Subliminal Verses).

Inutile negare il senso di sorpresa che nel 1999 una band formata dall’insolito numero di nove elementi, per di più mascherati come satanassi resuscitati direttamente da un inferno fatto prevalentemente di ore interminabili al tornio o all’altoforno (celebri le tute da operaio sfoggiate dalla band a inizio carriera, un ipotetico attacco allegorico alle condizioni nefaste della working class americana), possa aver suscitato nell’ascoltatore medio di quel periodo, sia che si trattasse di uditori abituati al Metal o, più precisamente, al Numetal sia che si trattasse di ascoltatori completamente novizi rispetto alla carica adrenalinica ed espressiva di un genere così vasto e così suscettibile di interessanti contaminazioni.

Il sound degli Slipknot nasce proprio dall’inclinazione a contaminare il lato più ruvido del Metal, in particolare gli ambiti Trash e Speed conditi da qualche venatura Doom e Death Metal, con un massiccio utilizzo dell’elettronica (sostenuta dal turntablist Sid Wilson e dal campionatore nonché tastierista Craig Jones) e l’utilizzo, almeno nelle prime uscite discografiche, di un flow tipico del rapping (in questo altri gruppi come Korn, Limp Bizkit e Linkin Park faranno la loro parte) che il vocalist Corey Taylor sfoggerà, unito a un grawl graffinte e incisivo, sin dalla traccia (Sic) del primo album.

I fan maggiormente affezionati che speravano con l’ultima uscita discografica We Are Not Your Kind, pubblicato dalla Roadrunner Records lo scorso 9 agosto, a un ritorno alle sonorità grezze del già citato Iowa rimarranno probabilmente delusi dal primo ascolto, non perchè manchino momenti di decisiva pesantezza in quest’ultimo lavoro ma più che altro per l’ormai già mostrata propensione della band a una maggiore ricerca della melodia, e non si può basimare tale intento avendo tra le file uno dei frontman di maggior spessore tra quelli visti negli ultimi vent’anni, ovvero Corey Taylor. La voce di Corey, e lo diciamo scevri da qualunque parteggiamento, risulta una dell più belle ascoltabili oggi nel mondo Hard Rock e Metal, paragonabile per bellezza (non per timbro, genere ed estensione vocale, qualità queste prettamente soggettive) a quelle dei purtroppo compianti Chris Cornell e Chester Bennington nonché a Myles Kennedy o il Phil Anselmo dei tempi d’oro con la band Pantera. Ciò che colpisce maggiormante delle capacità vocali di Taylor è senz’altro la capacità con la quale si muove tra il grawl più aggressivo e una struggente capacità melodica, con un timbro baritonale per nulla poco incline a divagazioni tenorili di empatico gusto.

Questa dicotomia rabbia-tormento interiore tipica del vocalism di Taylor è presente nel suo completo splendore nell’ultimo album, coadiuvata da un utilizzo ancora più marcato dell’elettronica rispetto al passato (l’utilizzo di pedali musicali sviluppati o solamente o tramite l’ausilio dei suoni elettronici non si contano all’interno dell’intero lavoro) e da un sapiente impianto ritmico dove la batteria di Jay Weinberg (subentrato al fondatore Joey Jordison in occasione del precedente lavoro in studio 5: The Gray Chapter, dedicato al primo bassista della band Paul Gray deceduto nel 2010) si fonde splendidamente con le percussioni di Shawn Crahan (qui da solo all’onere delle registrazioni a seguito del recente licenziamento del secondo percussionista Chris Fehn) e con il basso di Alessandro Venturella. Le chitarre di Mick Thompson e e Jim Root mantengono il proprio carattere rabbioso mediante l’utilizzo ormai standard dell’accordatura in Drop B, tessendo però alcuni passaggi contrappuntistici inusuali per la band ma allo stesso tempo carichi di efficacia.

L’album parte con la quasi del tutto strumentale Insert Coin, intro squisistamente elettronico che ci presenta la voce di Corey Taylor avvicinandola al nostro apparato uditivo facendola partire da molto lontano, quasi come un’introduzione di carattere cinematografico in apertura a un album che non è di certo un concept ma che richiama tale struttura a filo conduttore unico in più di un episodio.

L’intro ci porta a Unsainted (il videoclip è uscito lo scorso maggio), brano che si distingue immediatamente per il proseguimento dell’introduzione marcatamente elettronica, la quale sfocia poi nel potente utilizzo delle chitarre e della sezione ritmica battente che strizza molto l’occhio a The Blister Exist, e per l’utilizzo di un coro di voci miste (voci bianche e femminili) riprodotto con l’ormai smpre elettronicamente e con il quale Corey Taylor duetta in un botta e risposta che richiama quasi reminescenze medievali. L’orecchiabilità del ritornello, caratterizzato da una melodia che rappresenta un hook eccellente, non poteva che avvantaggiare il brano per la sua promozione a singolo di traino e si presenta come perfetta antitesi al grawl del cantante presente nei verses.

Birth Of The Cruel prende piede da un martellante (nel vero senso del termine) inciso di percussioni, al quale si affianca quasi subito la batteria e il convincente riff delle chitarre eseguito pressoché all’unisono tra di loro e con il basso. Qui escono fuori gli Slipknot che conosciamo, arrabbiati e vogliosi di sputare nella propria musica il proprio malessere di qualsivoglia entità esso sia, continuando ad appoggiarsi su un massiccio utilizzo dell’elettronica.

Lo stacco di 1,20 minuti chiamato Death Because Of Death, dove Corey Taylor ripete incessante la frase «Death because of death because of you» accompagnato ancora una volta da un coro di matrice elettronica, lascia spazio a Nero Forte, uno dei brani più cattivi dell’intero disco, dove ancora la melodica si fonde con il grawl aggressivo richiamando sonorità già sentite in Vol. 3: (The Subliminal Verses) e All Hope Is Gone; apprezzabile seppur non originale l’inserimento di un contrappunto ritmico eseguito prima dalla batteria in controtempo rispetto alle parti eseguite dalle due chitarre e dal basso, poi con queste eseguito all’unisono con l’intento di circondare la prepotente voce di Taylor in un crescendo che ricorda molto quello di Liberate, brano contenuto nel disco d’esordio. Altri momenti di convincente cattiveria, conditi da sperimentazioni ritmiche degne di nota (utilizzo dell’hemiolia fra sezione ritmica e quella melodica; esperimenti con tempi dispari), li troviamo nelle tracce 6, 8 e 11, ovvero Critical Darling, Red Flag e Orphan, tre brani che, seppur lontani dalla pesantezza luciferina di Iowa, sapranno soddisfare la volontà di heavy sound molto probabilmente rivendicata dai fan di lunga data. Orphan in particolare catapulta l’ascoltatore in un limbo tra Iowa e Vol. 3: (The Subliminal Verses), con il solito incontro-scontro tra il grawl recitativo e la potenza melodica del frontman.

I brani di maggior interesse li troviamo però nelle tracce 7 e 10, ovvero A Liar’s Funeral e Spiders, dove la volontà di sperimentazione della band trova tutta la sua manifestazione più autentica. Il primo dei due brani è strutturato su un tempo lento impreziosito da arpeggi ottimamente eseguiti nella sezione strofica, dove la voce estremamente pulita di Corey Taylor va a scontrarsi con il suo momento di massimo sfogo nella pronuncia della parola «Liar», quasi a voler simboleggiare un crescendo di emozioni che sfociano poi in urlo fragoroso rivolto a chi ha osato mentire. L’utilizzo del crescendo è un altro tratto stilistico che si trova nell’intera durata dell’album, così come le già citate arditezze ritmiche che in Spiders sono esemplificate dall’utilizzo di un tempo in 7/4 che sostiene un ripetitivo arpeggio che da inizio a tutto l’impianto della canzone. Anche qui elettronica e mastodontico utilizzo della ritmica fanno da padroni, sostenendo un’altra splendida performance vocale di Corey Taylor.

Mentre la traccia What’s Next funge da puro trait d’union tra la graffiante Red Flag e la sovradescritta Spiders, le ultime tre tracce My Pain, Not Long For This World e Solway Firth aggiungono poco a quanto già messo sul tavolo da We Are Not Your Kind, marcando ulteriormente l’utilizzo reiterato dell’elettronica, uno spasmodico ricorso al crescendo nella dinamica e una voce capace di essere apparizione terrena del noto romanzo Dr Jeckyll and Mr Hyde.

Se da una parte l’ultima fatica degli Slipknot è molto lontana dal poter essere chiamata capolavoro, dall’altra restituisce una band che, seppur attraversata da recenti turbolenze in ambito e professionale e umano (avvenimenti ben presenti nei testi di ogni singola canzone dell’album), è stata capace di veicolare tutta la propria rabbia e voglia di rivalsa in un prodotto magistralmente confezionato (un enorme plauso va al produttore Greg Fidelman) e ancora una volta molto convincente. È inutile negare che il gruppo dei nove sia definitivamente cambiato dal già più volte citato Vol. 3: (The Subliminal Verses), così come non si può non riconoscere l’influenza più o meno marcata del secondo gruppo di Corey Taylor, gli Stone Sour, ma tutto ciò non può che far parte di un fisiologico processo di evoluzione tipico di tutti gli artisti non per forza deleterio al messaggio trasmesso.

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