Il giorno di Natale ha per ciascuno di noi un significato profondamente differente: c’è chi lo considera la giornata più bella dell’anno e non attende altro che il suo arrivo, c’è chi ne sminuisce il valore relegandolo all’ennesima mera ricorrenza consumistica e c’è chi lo odia e lo rifugge come la peste (vedasi la cosiddetta “sindrome del Grinch”) a causa di un qualche imprecisato trauma psicologico subito proprio durante le festività. Proprio a quest’ultima categoria appartiene il personaggio principale di A Christmas Carol (in italiano tradotto come Il canto di Natale), romanzo scritto da Charles Dickens nel 1843, ovvero il vecchio misantropo e avaro Ebenezer Scrooge. Il romanzo di Dickens nasce con l’intento di essere una feroce critica alla società dell’epoca, unendo al gusto del racconto gotico l’impegno alla lotta alla povertà, allo sfruttamento minorile e all’analfabetismo, piaghe sociali nefastamente diffuse nell’Inghilterra ottocentesca incastrata tre le due Rivoluzioni Industriali. Di questo fantastico racconto natalizio sono state realizzate diverse versioni sia per il grande che per il piccolo schermo (si pensi al film omonimo realizzato da Robert Zemeckis nel 2009, con uno stratosferico Jim Carrey), e anche in questo caso la Disney ha voluto realizzare la propria con un cortometraggio molto noto nonché molto sentito datato 1983.
Il film, diretto da Burny Mattinson, uscì il 20 ottobre del 1983 nel Regno Unito come cortometraggio appartenente alla serie Mickey Mouse; si trattò del primo corto della serie in cui comparve il personaggio di Topolino dopo un periodo di trent’anni, ovvero dopo l’uscita di Topolino a pesca del 1953. Il film ottenne una nomination agli Oscar 1984 come Migliore Cortometraggio di Animazione e, nonostante abbia perso in favore di Sandae in New York di Jimmy Picker, si trattò della prima nomination per un corto Disney dai tempi di Topolino e la foca del 1948. I personaggi del libro di Dickens vengono qui interpretati dai più noti beniamini appartenenti alle due fittizie città disneyane di Paperopoli e Topolinia, e fra tutti spiccano Ebenezer Scrooge (Paperon de’ Paperoni) e Bob Cratchit (Topolino).
Degno di nota è il fatto che, all’atto della sua creazione, il personaggio di Paperon de’ Paperoni fu proprio ispirato alla figura di Ebenezer Scrooge (in inglese infatti il noto personaggio Disney viene conosciuto con il nome di Scrooge McDuck), e viene quindi in questa sede collocato nella sua veste più congeniale. Trattandosi di un cortometraggio la storia viene notevolmente sfoltita, nonché addolcita, per essere appetibile a un pubblico principalmente infantile, ma nonostante i 20 minuti o poco più di durata del film il messaggio di redenzione e riscoperta di sé stessi che Scrooge ci mostra percorrendo il proprio viaggio interiore durante la Vigilia di Natale ci viene comunicato con maestria e straordinaria efficacia: tutti noi siamo Scrooge, tutti noi abbiamo un passato da cui imparare, un presente da vivere e gustare appieno e un futuro incerto (oggi più che mai) ma che possiamo modellare con le nostre azioni, ma non tutti noi siamo in grado di prendervi coscienza e agire con determinazione e coraggio per cambiare in meglio la nostra vita. Il film trasuda di due concetti vecchi come il mondo ma che andrebbero oggigiorno riscoperti se non addirittura tatuati sulla pelle per poterli ricordare in ogni singolo istante: Memento Mori, ovvero ricordiamoci che dobbiamo morire un giorno e che la vita è troppo breve per sprecarla facendoci divorare da fantasmi passati che devono avere per noi un significato essenzialmente pedagogico, e Carpe Diem, frase latina di “john-keetingsiana” memoria (i lettori che hanno visto il film Dead Poet Society, da noi uscito come L’attimo fuggente capiranno la creatività nell’uso dell’aggettivo) che ci ricorda come non si debba sprecare nessuna occasione bensì coglierla al volo poiché difficilmente si presenterà una seconda volta. La caducità della nostra esistenza è ben raffigurata in questo film (memorabile è la scena nel cimitero dove viene mostrata a Scrooge la propria futura tomba con nessun parente o amico affranto a dirgli addio), ma piuttosto che crearci ansia ci regala al contrario una piacevole sensazione di speranza e consapevolezza di quanto sia bella la nostra esistenza proprio perché non eterna. L’uomo non è fatto per l’eternità, semmai è votato all’unicità, ed è proprio la sua unicità che lo eleva a qualcosa di più grande di un corpo o di un possesso, che lo può indirizzare verso la vera immortalità dell’anima costruita soprattutto sulle nostre azioni. Scrooge, percorrendo il proprio viaggio catartico, ci vuole proprio insegnare come guardare dentro noi stessi e trovare il vero significato della nostra esistenza, oggi ancora troppo caratterizzata da una spasmodica corsa all’accumulo di denaro e possedimenti piuttosto che dalla volontà di accrescere il proprio Io e coltivare le relazioni con il prossimo nostro, questi due i veri aspetti di questo mondo che sono in un certo senso immuni alla mortalità.
Come tutti i lavori cinematografici, per non dire artistici in senso più generico, anche Il canto di Natale di Topolino ricevette critiche sia positive sia negative. Sul primo versante si pronunciò Leonard Maltin, il quale disse che il film, invece di essere “un pallido tentativo di imitare il passato”, si mostrava “amabilmente scritto, ben messo in scena e animato con vero spirito e senso di divertimento” (Leonard Maltin, Of Mice and Magic: A History of American Animated Cartoons, New American Library, 1987, p. 79). Robin Allen, altro critico, ha dichiarato che il film richiama alla mente le somiglianze tra Walt Disney e Charles Dickens, in termini sia di lavori prodotti che di etica del lavoro (Allan Robin, Walt Disney and Europe, Bloomington, Indiana, Indiana University Press, 1999, p. 261). Sul fronte delle critiche negative, tuttavia, Gene Siskel e Roger Ebert di At the Movies gli hanno conferito “due pollici versi”: Siskel enfatizzò come il personaggio di Topolino fosse eccessivamente banalizzato e come il film non fosse al livello di molti Classici Disney; Ebert dichiarò invece che mancava la magia dell’animazione visiva per cui “è famoso il personale Disney” e che si trattasse di una “marcia forzata” attraverso la storia di Dickens senza alcuna svolta ironica (At the Movies, Dicembre 1983). Il nostro Andrea Fiamma, su Fumettologica, disse del corto: «L’inossidabilità de Il canto di Natale di Topolino ha dimostrato che tanto gli artisti quanto la creatura di Walt Disney fossero pronti ad affrontare il futuro: fallendo, riprovando e maturando» (Andrea Fiamma, (Ri)far un classico: “Il Canto di Natale di Topolino”, in Fumettologica, 23 dicembre 2017. URL consultato il 25/12/2019).
Critiche a parte, più che comprensibili e auspicabili vista l’importanza del corto in questione, è innegabile il fascino che la visione di questo cartone animato può ancora suscitare negli spettatori odierni, sia piccini sia grandi. È con la speranza di redenzione e riscoperta di noi stessi spiegata poche righe addietro che non possiamo fare altro se non augurare a tutti i lettori il più felice Natale possibile.