18 agosto 1969: quella volta in cui Jimi Hendrix diede un pugno (davvero voluto?) all’America suonando l’Inno a Woodstock

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Non è facile descrivere l’esibizione di James Marshall Hendrix, in arte Jimi, a Woodstock, e non lo è per una serie di motivi: il contesto musicale in cui l’istrionico chitarrista di Seattle si stava muovendo in quell’occasione era del tutto nuovo rispetto al passato (il vecchio trio formato insieme a Noel Redding e Mitch Mitchell, «The Jimi Hendrix Experience», era stato sostituito da una nuova formazione molto più ampia chiamata «Gipsy Sun and Rainbows»), il significato politico dell’esibizione fu volente o nolente di elevata caratura per via della guerra in Vietnam ancora in pieno corso (nonostante non fosse nelle intenzioni primarie dell’artista), Jimi si esibiva davanti ai suoi connazionali (non che fosse la prima volta da quando Chas Chandler lo scoprì e portò a Londra per fargli da produttore) dopo un recente passato che lo aveva visto per la maggior parte calato nella realtà inglese e, infine, l’esibizione a Woodstock si svolse poco più di un anno prima della scomparsa del musicista, quasi a volersi tramutare in un inconsapevole testamento musicale di una delle figure più importanti per la storia del rock e la più importante in assoluto per quella della chitarra elettrica. Tra queste tematiche, estrapolate da un raccoglitore che potrebbe essere ben più corposo, si cercherà di dare maggiore enfasi e dettare alcune meno note considerazioni sul significato che soprattutto l’esecuzione di Star Spangled Banner? ebbe e sui presenti al festival di Woodstock e sulle descrizioni storiche successive al 1969.

Leggendo le testimonianze di coloro che presero parte alla performance, l’intervento hendrixiano non cominciò proprio nel migliore dei modi: delle iniziali 500.000 presenze sul terreno di Bethel dove si tenne il festival rimasero solo 30.000 persone, questo perché l’esibizione di Jimi, programmata per la mezzanotte del giorno precedente venne posticipata alle 8:00 del mattino del 18 agosto, lunedì mattina che aveva richiamato molti spettatori all’ordinaria vita feriale; il terreno era ancora per larga parte coperto di fango per le recenti e copiose piogge e gli spettatori rimasti erano tra i più «in aria» di quelli che avevano preso parte all’intero festival. Essendo la formazione non ancora rodata a pieno (tra l’altro sarà presentata dallo speaker del festival come Jimi Hendrix Experience, con pronta correzione da parte di Jimi stesso), l’intero concerto di due ore circa venne quasi del tutto improvvisato, con i singoli musicisti privi di una vera e propria scaletta e dipendenti dalle scelte estemporanee del frontman.

Arrivando al sodo della questione, cosa curiosa è quella portata alla luce dal bellissimo libro su Jimi Una foschia rosso porpora di Harry Shapiro e Caesar Glebbeek edito da Arcana, dove viene messo in evidenza come Jimi in quel particolare periodo storico (gli anni attorno al 1968) si muovesse su posizioni apertamente di destra e quindi in netto distacco con lo spirito principale del festival. In una sua dichiarazione a MM del 28/01/1967 si esprime come segue: «Quando la Cina diventerà padrona del mondo allora il mondo capirà perché l’America sta mettendo tanto impegno nel Vietnam». Non risparmia nemmeno pesanti critiche a quella che doveva sembrargli una sorta di “ipocrisia europea” espressa dal vecchio continente in quest’altra dichiarazione a Kink datata 25/02/1967: «Come mai non avete mandato via gli americani quando sono sbarcati in Normandia? Non era anche quella un’interferenza?… Ma allora era in ballo la vostra pelle. In Vietnam gli americani stanno combattendo perché il mondo sia completamente libero. Appena se ne andranno, i vietnamiti saranno nelle mani dei comunisti. È per questo che il pericolo giallo [la Cina] non va sottovalutato. Certo, la guerra è una cosa terribile, ma al momento è l’unica garanzia per una pace sicura». Da queste dichiarazioni traspare ancora un acceso patriottismo ampiamente giustificato dal servizio militare prestato da Jimi presso la US Army da ragazzo, ma tutto ciò non deve far pensare al giovane artista come a un amante dello scontro bellico, anzi: «Jimi era comunque contrario agli orrori della guerra in quanto simbolo della disumanità dell’uomo verso i suoi simili e anche ai limiti imposti dall’arruolamento alle libertà individuali. Questo spiega come mai i suoi concerti in Svezia fossero stati dedicati ai “disertori” americani fuggiti in quel Paese perché neutrale» (Shapiro; Glebbeek, 2010, pag. 331). A questo punto diventa davvero difficile dare una corretta interpretazione dell’esecuzione di Star Spangled Banner? effettuata da Jimi in quest’occasione, performance descritta dalla Storia come un acceso attacco alla guerra in Vietnam, ma a quanto pare fraintesa nelle sue intenzioni. Provano sempre Shapiro e Glebbeek a mettere ordine:

«Forse Jimi intendeva innanzitutto dire al pubblico che restare seduti per tre giorni in un mare di fango e spazzatura non poteva certo cambiare il mondo. Gli elicotteri militari noleggiati per trasportare musicisti e viveri che oggi sono dalla “nostra parte” (o piuttosto dalla “loro parte”) domani potrebbero essere da quella opposta. Perché non lasciamo perdere quel che succede a migliaia di chilometri di distanza? Perché non pensiamo ai fatti di casa nostra, ai poliziotti che picchiano ragazzi neri e bianchi, ai ghetti in fiamme? Come possiamo sognare che questa sia l’alba dell’era di chissà cosa mentre accadono fatti simili? Dove sono coloro che ci possono guidare verso un mondo migliore? Chi può dare l’esempio? Se ricordiamo che nei dodici mesi successivi ci saranno Manson, Altamont e gli studenti uccisi alla Kent State University, allora il punto di vista di Jimi non ci apparirà del tutto sbagliato. Basti pensare all’entusiasmo con cui la stampa (non tutta per la verità) salutò, appena terminato il festival, la “promessa di Woodstock” e al modo in cui la Storia ha maltrattato l’evento, specie dopo Altmont [altro festival musicale tenuto il 6 dicembre del medesimo anno in California]. Forse Jimi è stato l’unico vero rivoluzionario di Woodstock, sicuramente il più iconoclasta fra coloro che hanno partecipato al festival.»

Jimi Hendrix in uniforme durante il servizio militare.

Possiamo forse presumere che l’esecuzione dell’Inno nazionale forse in realtà un sentito omaggio di Jimi al suo Paese natale piuttosto che quel pugno che buona parte della cronaca e critica successiva ha ipotizzatato volesse tirare al governo statunitense in risposta all’impegno bellico in Vietnam? Una risposta precisa difficilmente l’avremo mai, visto che le posizioni filo-americane dell’«angelo con la Stratocaster» vennero ben presto annacquate da una massiccia dose di LSD che lo portò molto più vicino alla folla di hippies presenti a Woodstock, in barba alla frase ironica del suo meraviglioso brano If a 6 was 9 contenuta in Axis: Bold as Love: «If all the hippies/ cut all of their hair/ I don’t care/ I don’t care!». Emblematica la dichiarazione a una radio locale che Jimi ebbe modo di rilasciare appena sceso dal palco, dimostrazione di come le distanze ideologiche dal pensiero del festival fossero molto meno marcate di quanto potesse sembrargli: «La non-violenza, la qualità molto, molto, molto buona della musica (e non parlo solo livello artistico), la risposta favorevole del pubblico nonostante la lunga attesa. Questa gente ha dovuto dormire nel fango e sotto la pioggia e sopportare di tutto eppure dice che è stato un bel festival… È gente che è stufa di finire nelle bande di strada o in qualche gruppetto politico, è stufa di sentire il Presidente parlare a vanvera… vuole prendere una nuova direzione e sa di essere sulla giusta via, ma ha ancora bisogno di qualcosa».

Tematiche politico-sociali a parte, se ci concentriamo sul significato prettamente musicale che quell’esecuzione ha donato al mondo, capiamo di trovarci di fronte al massimo splendore della cosiddetta «rivoluzione elettrica» che Jimi aveva in mente, rivoluzione molto più musicale e strumentale che ideologica; perché non dimentichiamoci mai che, tralasciando tutte le chiavi di lettura più o meno forzate trovate a posteriori per descrivere le gesta musicali e personali dell’autore di Purple Haze e The Wind Cries Mary, Jimi Hendrix era prima di ogni altra cosa un superbo musicista, e come tale la sola religione seguita, venerata e messa in pratica fino alla scomparsa (18 settembre 1970, quartiere di Notting Hill a Londra) sarà la musica e lo strumento con cui realizzarla,ovvero la chitarra elettrica.

Jimi Hendrix in concerto.

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